L’altra faccia dell’America/6
UNA NUOVA FRONTIERA: IL BLACK CINEMA
Dagli anni ’60 del ‘900, a cominciare dallo sport e dalle forze armate, si è andata creando una borghesia di colore il cui prestigio sociale è oggi indiscusso e diffuso in tutto il paese, al punto da annoverare un afroamericano inquilino della Casa Bianca (Barack Obama), dopo averne avuti due come Segretari di Stato (Colin Powell e Condoleezza Rice). Nel cinema e nello showbizi neri sono sempre stati una presenza importante, ma fino a 40 anni fa ciò si risolveva nell’inserimento, anche in ruoli rilevanti, di attori o musicisti di colore in film di ambientazione e soggetto bianchi, girati da registi bianchi e con la partecipazione preponderante di attori bianchi. Oppure in ruoli comici: da Sammy Davis jr a Eddie Murphy. Caso emblematico il film che ha rappresentato la svolta nei rapporti tra il cinema e la comunità nera: Indovina chi viene a cena(Guess Who’s Coming to Dinner, 1967), di Stanley Kramer, con Spencer Tracy, Katharine Hepburn, e Sidney Poitier. Emblematico perché rappresenta una delle prime e più rilevanti infrazioni al Codice Hays un comma del quale escludeva esplicitamente la messa in scena di relazioni sentimentali tra appartenenti a razze diverse. Non solo: nel 1967, come ricorda una battuta del film, in una quindicina di stati i matrimoni misti erano ancora un reato. Significativo anche il fatto che l’azione del film sia ambientata a San Francisco, California, ossia nella città più liberal dello stato più liberal: il massimo quanto a tolleranza verso ogni tipo di diversità. Nella vicenda emerge comunque prepotente il pregiudizio razziale che permane ancora, anche nelle frange più avanzate della società americana. Pregiudizio che non viene rappresentato solo nella componente bianca, ma anche (e soprattutto) in quella nera, non meno diffidente della “controparte”.
Personaggi e interpreti
Rilevante anche la scelta degli interpreti e dei rispettivi personaggi. Spencer Tracy e Katharine Hepburn, uniti nella vita oltre che sullo schermo, avevano sempre manifestato posizioni politiche liberal e rappresentavano perciò i candidati ideali per impersonare la coppia di genitori di larghe vedute la cui figlia decide di sposare un uomo di colore. Editore di una rivista progressista lui, gallerista lei, amante del bello, ha tappezzato le pareti della loro lussuosa casa con vista sulla baia di quadri (si presume autentici) di Modigliani e impressionisti francesi. Coppia facoltosa e culturalmente avanzata, dunque. Al pari del candidato genero, figlio di un portalettere in pensione che, con tutta evidenza, ha sacrificato i risparmi di una vita per pianificare la carriera di quel ragazzo promettente che ora, benché giovanissimo, è già un medico e ricercatore affermato. Per giunta con i tratti da Apollo nero di un allora quarantenne Sidney Poitier. Film coraggioso, visti i tempi, ma non certo rivoluzionario. Come Mississippi burning(id., 1988) di Alan Parker, regista liberal abituato a portare sullo schermo storie vere di persecuzioni e soprusi.
Un caso esemplare: Spike Lee
Una società multirazziale come quella statunitense ha sempre sviluppato settori culturali legati alle varie minoranze etniche come, per esempio, quella italiana, ebraica, ispanica o irlandese. Ma mentre in passato appartenevano alle minoranze anche i potenziali fruitori di tali opere, oggi non è più così. Oggi anche il cinema più etnicamente connotato si rivolge a un pubblico costituito da tutte le etnie. E se in ordine di tempo l’ultimo arrivato è il cinema di e con esponenti della comunità asiatica – per tutti il recentissimo successo di Crazy&Rich(Crazy Rich Asians, 2018) di Jon M. Chu – il Black Cinema è oggettivamente quello che ha avuto un maggiore sviluppo nel tempo, successo economico e risonanza internazionale con autori come Charles Burnett, John Singledon, Mario Van Peebles e Spike Lee. Quest’ultimo è forse il caso più esemplare di come un cinema “black” può assimilarsi a quello “white” quando entra nello star system hollywoodiano. Lee esordisce nel 1986 con una produzione indipendente, Lola darling(id.), che viene premiato a Cannes, e che dopo aver incassato 8 milioni di dollari in patria fa ottenere al suo autore un contratto con la Columbia. Lee gira quindi Aule turbolente(School Daze, 1988) e Fa’ la cosa giusta(Do the Right Thing, 1989), entrambi sul tema dei conflitti tra minoranze, mentre con Jungle fever(id., 1991) il contrasto razziale, e vagamente razzista, tra la comunità nera e quella italoamericana, si stempera in una classica love story: il colore della pelle crea i problemi, il grande cuore dell’America, prima o poi, li risolve. Anche il recentissimo BlacKkKlansman(id., 2018), tra denuncia e ironia, dramma e commedia non si discosta nella forma dai film “liberal” girati da registi bianchi.
Storie vere
Più problematici altri titoli recenti che, in molti casi, riprendono a loro volta (come l’ultimo di Lee) fatti, personaggi e avvenimenti del passato. È il caso di Selma-La strada per la libertà(Selma, 2014) dell’afroamericana Ava DuVernai, che rievoca la marcia antiapartheid del 1965 in Alabama cui prese parte Martin Luther King. Il movimento non violento di King sostiene la popolazione nera della cittadina di Selma nella sua lotta dando vita a una celebre marcia verso Montgomery, la capitale dello stato, con migliaia di partecipanti di tutte le razze e le religioni venuti da ogni parte degli Usa. Nella produzione del film c’è lo zampino di Oprah Winfrey, ossia di una donna colouredtra le più potenti d’America che si ritaglia anche una particina, ma il cast (Oyelowo, Roth, Wilkinson) e il produttore Kleiner sono inglesi. Così come inglese (di colore) è Steve McQueen, regista del più noto, premiato (e sopravvalutato) film di ambientazione “black”: 12 anni schiavo(12 Years a Slave, 2013). Anche qui si parte da una storia vera, quella di Solomon Northup, uomo libero, antesignano di quella borghesia nera di cui abbiamo detto, che nell’America del 1841 diventa una pregiata “merce” che fa gola a trafficanti senza scrupoli. Rapito e venduto ai negrieri del Profondo Sud, per Solomon inizia la discesa agli inferi nei gironi della schiavitù, tra piantagioni di cotone e canna da zucchero, in attesa di un riscatto che arriverà solo dopo 12 anni, come da titolo. Grande sfarzo produttivo, di costumi e di scenografia per scarse qualità artistiche.
Figure e barriere
Molto migliori Il diritto di contare(Hidden Figures, 2017), di Theodore Melfi (regista bianco), che riprende, anche qui, la storia vera di un gruppetto di donne di colore impegnate nei programmi spaziali americani negli anni ’60. È la guerra fredda e la competizione con l’Unione Sovietica nella corsa ai missili. Un frammento del recente passato della nazione più potente del mondo che, da un lato, ne celebra i fasti tecnologici, dall’altro non ne nasconde i nefasti sociali. Di origine teatrale, e dunque di pura finzione, è invece Fances-Barriere(Fances, 2016) di Denzel Washington, l’erede designato di Poitier. Ambientato negli anni ’50 a Pittsburgh, narra la vita di Troy Maxson, ex campione di baseball che per vivere fa il netturbino, e della sua famiglia, dei suoi amici. Vite marginali, di un proletariato senza ambizioni che non siano il portare a casa la paga ogni venerdì e migliorare la propria condizione economica. In un’America fortemente razzista dove il nero deve ancora fare il triplo della fatica dei bianchi per emergere in qualsiasi campo. Su questo sfondo si consuma il dramma interiore di Troy, uomo dalla vita bruciata, che nel desiderio di proteggere se stesso e i suoi cari dagli insulti di un’esistenza grama, finisce con l’avvelenare il clima domestico e allontanare da sé gli affetti più cari.
Colore della pelle e colore delle idee
Per chiudere il cerchio, possiamo ricordare altri due film, antecedenti di Indovina chi viene a cena, che hanno segnato tappe importanti nello sviluppo di una cinematografia che portasse alla luce tutta la drammaticità della questione sociale relativa alla minoranza nera: Il buio oltre la siepe(To Kill a Mockingbird, 1962) di Robert Mulligham, e Violenza per una giovane(The Young One, 1960) di Luis Buñuel. Il primo vede un avvocato progressista (Gregory Peck) difendere un giovane nero accusato di stupro di una donna bianca nell’Alabama del 1932. Al tema razziale il film unisce un discorso più generico sull’educazione dei bambini e sulla diversità, rappresentata dal misterioso personaggio di Boo (Robert Duvall), malato di mente e deus ex machinadella vicenda. Più interessante il film di Buñuel cosceneggiato da Hugo Butler, scrittore progressista che aveva già collaborato nel 1945 con Jean Renoir per L’uomo del Sud(The Southerner, 1945). Anche qui una storia di persecuzione razziale si innesta su una più generale, pessimistica riflessione sulle possibilità dell’uomo di liberarsi da tutti i pregiudizi, a partire da quelli religiosi. Cosa che Butler conosceva bene essendo finito nella lista nera del Maccartismo. Perseguitato a sua volta non per il colore della pelle, ma per il colore delle idee.
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