L’altra faccia dell’America/5
MI CHIAMO JOHN FORD E FACCIO WESTERN
di Auro Bernardi e Pierfranco Bianchetti
«Tra una settimana tutti nella Monument Valley. Si gira un western!». Così telegrafava John Ford agli amici John Wayne, Ward Bond, Henry Fonda, Victor McLaglen, compagni inseparabili delle sue incursioni cinematografiche nel mito del West. E nell’immaginario collettivo il nome di Ford – spesso abbinato a quello di Wayne – è diventato sinonimo di film sul mito della frontiera americana, il genere più tipico, per non dire specifico, della cinematografia stelle&strisce. Eppure non c’è forse errore più marchiano che rinchiudere questo regista in una sola tipologia di film. In ogni caso, comunque la si valuti, la sua opera ha ispirato, più o meno direttamente, quella di registi diversissimi, ma non meno importanti quali Orson Welles, Akira Kurosawa, François Truffaut, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Wim Wenders e molti altri.
Origini irlandesi
John Martin Feeney nasce nel Maine nel 1894 da una famiglia di origine irlandese. Al termine degli studi, dopo aver tentato inutilmente di arruolarsi in marina, segue il fratello maggiore Francis Ford a Hollywood dove quest’ultimo lo introduce nel mondo dello spettacolo “passandogli” anche il secondo nome che l’ha fatto diventare un omonimo del drammaturgo inglese dell’età elisabettiana. Tra il 1917 e il 1929 Ford gira una sessantina di film, in gran parte perduti, di genere diversissimo, fatto del tutto normale per l’epoca. Alcuni di questi, per esempio, Cavallo d’acciaio(The Iron Horse, 1924) sull’epopea ottocentesca della ferrovia transcontinentale, ottengono grande successo e una diffusione internazionale.
Esplorazione dei generi
negli anni ’30, con l’avvento del sonoro, prosegue la sua esplorazione dei generi più disparati: dal drammatico Flesh-Il lottatore(Flesh, 1932) sull’improbabile saga familiare di un uomo tanto forte sul ring quanto ingenuo nella vita, allo storico Il traditore(The Informer, 1935) sulla lotta per l’indipendenza irlandese, al più denso e pregnante Il mondo va avanti(The Word Move on, 1934) in cui mette in scena quattro generazioni di imprenditori nel corso di un secolo di storia. Qui applica, forse per la prima volta, la regola estetica riassunta nella celebre affermazione: «Se mostri un chiodo nel muro nella prima inquadratura, nell’ultima qualcuno deve appendervi un cappello». In ogni caso questo film presenta non poche analogie (e dunque si può presumere che ne sia fonte di ispirazione) con il film di Orson Welles L’orgoglio degli Amberson(The Magnificient Amberson, 1942) anche se la differenza stilistica e ideologica tra i due autori è profondissima.
Il mito della Frontiera e altre storie
Alla fine del decennio si colloca Ombre rosse(Stagecoach, 1939), certamente il titolo più famoso della filmografia fordiana. Benché collocato fisicamente e temporalmente nell’epoca della Frontiera, in senso stretto non si tratta di un western. Lo stesso titolo originale (che significa semplicemente La diligenzae che contiene la parola stage=palcoscenico) pone l’accento sul vero focus del narrato che è la descrizione dei caratteri e del vissuto di personaggi molto diversi tra loro, ma molto emblematici per la società americana non solo delle origini, ma anche contemporanea. Discorso analogo si può fare per altri titoli del periodo, più o meno riusciti: Furore(The Grapes of Wrath, 1940) sulla Grande Depressione, dal romanzo di Steinbeck appena pubblicato, ai molto più deboli La via del tabacco(Tobacco Road, 1941), sullo stesso tema, al retorico e pretenzioso Com’era verde la via valle(How Green Was My Valley, 1941), sulle lotte sindacali dei minatori gallesi.
I valori della nazione
Dagli anni ’40 al 1966, anno dell’ultimo film Missione in Manciuria(Seven Women) si susseguono oltre 40 titoli, molti dei quali legati sempre all’epopea del West e della Cavalleria in particolare, ma sempre con una estrema duttilità nel praticare i generi più disparati. Sostanzialmente conservatore, Ford in tutti i suoi film ha sempre portato in scena i valori fondanti della nazione americana, i legami della famiglia, il senso del dovere che viene prima di ogni altra considerazione, la rettitudine, la trasmissione dei principi tra generazioni diverse anche in presenza di ribellioni o devianze. In fondo, Ford è stato davvero il più grande cantore, e il più genuino, dell’America. A sua volta poco incline al compromesso se è vero quanto si racconta a proposito di un’assemblea della Directors Guild (l’associazione dei registi di Hollywood) indetta da Cecil B. De Mille nel tentativo di estromettere il presidente in carica, Joseph Mankiewicz, sospetto di simpatie comuniste. Siamo in pieno maccartismo e anche solo un simile sospetto è in grado di stroncare una carriera. Dopo la lunga filippica di De Mille, nella sala si alza una sola mano: «Mi chiamo John Ford e faccio western. Credo che non ci sia nessuno in questa stanza che sappia meglio di Cecil quello che il pubblico americano vuole e che sappia accontentarlo meglio. Ma non mi piace nulla di quello che hai detto stasera. Perciò, propongo di rinnovare la nostra fiducia a Joseph e poi che ce ne andiamo tutti a casa». L’assemblea seguì John Ford, il regista che faceva western e che aveva il dono dell’onestà intellettuale. Muore nel 1973 a 79 anni.
LINK
The Iron Horse(1924)
Flesh-Il lottatore– 1932
The World Moves on– 1934
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