Israele è la seconda tappa del primo viaggio di Donald Trump all’estero da Presidente degli Stati Uniti, dopo la visita in Arabia Saudita e prima dell’incontro con Papa Francesco in Vaticano. In questa tappa (22–23 maggio) Trump incontrerà a Gerusalemme il presidente israeliano Rivlin e, per la seconda volta, il Primo ministro Benjamin Netanyahu, ma anche, a Betlemme nei Territori Palestinesi, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, già incontrato poche settimane fa alla Casa Bianca. Tra i luoghi simbolici in cui il neo presidente USA si recherà, vi sono il memoriale dell’olocausto Yad Vashem, il Muro del Pianto e la Basilica del Santo Sepolcro.
Perché Trump va in Israele: recuperare l’alleato?
Dopo la visita ufficiale degli scorsi giorni in Arabia Saudita, dove Trump ha incontrato Re Salman e oltre cinquanta leader di stati musulmani sunniti, la scelta di recarsi nello Stato ebraico marca la principale differenza rispetto al primo viaggio mediorientale nel 2009 del suo predecessore Barack Obama. L’ex presidente statunitense aveva infatti visitato l’Arabia Saudita e l’Egitto – dove all’Università del Cairo tenne il celebre discorso rivolto ai popoli del mondo musulmano – ma non Israele, in una strategia che mirava a distendere le relazioni tra USA e mondo musulmano dopo il progressivo raffreddamento nel corso della presidenza di George W. Bush. La scelta della tappa israeliana segnala quindi la volontà dell’amministrazione Trump di riaffermare la centralità di Israele nella politica estera statunitense e il “legame incrollabile” tra i due paesi, allentatosi negli anni della presidenza Obama a causa delle tensioni tra l’ex presidente USA e Netanyahu soprattutto intorno alla questione degli insediamenti. Inoltre, è anche un tentativo di ricompattare un fronte comune anti–iraniano guidato dagli stessi Stati Uniti. Va detto però che la scelta di includere nella tappa israeliana anche un incontro con il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas a Betlemme, risponde all’intenzione, già ufficializzata dalla Casa Bianca, di rimettere al centro dell’agenda internazionale degli USA la ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi: impresa che, a meno di sorprese eclatanti, sarà tutt’altro che facile.
Il processo di pace: Trump fa sul serio?
La ripresa del processo di pace tra israeliani e palestinesi, dopo uno stallo durato diversi anni, sarà uno dei nodi cruciali al centro della visita di Trump in Israele. La ricerca di un accordo tra le due parti, lo “scopo ultimo” secondo Trump, figura tra le priorità nell’agenda di politica estera del nuovo presidente statunitense, che in occasione dell’incontro dello scorso 3 maggio con il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas alla Casa Bianca ha rassicurato sulla propria volontà di impegnarsi risolutamente su questo fronte (“we will get this done”). Anche il nuovo ambasciatore USA a Tel Aviv, David Friedman, avrebbe già avvertito i funzionari israeliani che Trump “sulla pace fa sul serio”. Benché sull’effettiva riuscita dello sforzo prevalga tra gli analisti ancora un certo pessimismo, la scelta di incontrare anche Mahmoud Abbas nei Territori Palestinesi sembrerebbe collocarsi proprio in questa logica diriconciliazione tra i due popoli. Proprio su questo tema, il presidente americano avrebbe dovuto pronunciare un “discorso chiave” nell’antica fortezza desertica di Masada sulla costa israeliana del Mar Morto, un luogo altamente simbolico in cui si sono recati in passato anche George W. Bush e Bill Clinton. Ufficialmente per ragioni logistiche, la visita di Trump a Masada è stata tuttavia cancellata e il neo presidente parlerà invece al Jewish Museum di Gerusalemme per “celebrare l’unicità di Israele e del popolo israeliano”, forse per rassicurare lo storico alleato della propria vicinanza malgrado le recenti aperture alla leadership palestinese.
Ambasciata e Muro del Pianto: partenza con il piede sbagliato?
Nel corso delle settimane precedenti alla visita di Trump in Israele non sono mancate alcune tensioni, soprattutto con la leadership del paese, tanto che la stampa israeliana ha riferito della preoccupazione di Netanyahu che Trump possa “tendergli un’imboscata” simbolica compiendo passi inaspettati proprio sulla questione delle relazioni israelo–palestinesi. Oltre alle recenti promesse di Trump di favorire la ripresa dell’economia palestinese, le ragioni di tale nervosismo possono essere individuate in diversi fattori. Da un lato, il governo israeliano teme che – messo in guardia dal proprio entourage – Trump finisca per tornare sui propri passi riguardo alla “promessa” di spostare l’Ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme (città sacra e simbolica sia per l’Ebraismo che per l’Islam), una mossa che potrebbe scatenare le ire dei palestinesi e del resto del mondo musulmano. Dall’altra, in Israele non ha mancato di suscitare malumori e “shock” anche la notizia circolata in queste settimane sull’intenzione di Trump di visitare il Muro del Pianto senza essere accompagnato dal premier israeliano poichè, secondo le indiscrezioni di un funzionario USA citato con ampia risonanza dai media, questo luogo sacro e simbolico per il mondo ebraico non si troverebbe in territorio israeliano e su di esso Israele non avrebbe dunque giurisdizione. Benché la Casa Bianca abbia affermato che le dichiarazioni del funzionario USA “non riflettono la posizione dell’amministrazione”, nella recente conferenza stampa ufficiale sul viaggio di Trump, il generale McMaster ha più di una volta rifiutato di dire che il Muro del Pianto si trovi in Israele. Infine, nel corso della campagna elettorale e ancora in occasione di una conferenza stampa congiunta con Netanyahu a febbraio, Trump era sembrato aperto alla possibilità di sostenere la soluzione di “uno stato” (allettante per le frange più conservatrici della leadership israeliana), ritenendo che la creazione di due stati indipendenti (uno palestinese e uno israeliano) non fosse più una priorità per gli USA. Pochi giorni prima del viaggio in Medio oriente il neo presidente è però tornato a pronunciarsi a sostegno dell’autodeterminazione del popolo palestinese, sposando il tradizionale approccio delle precedenti amministrazioni statunitensi alla questione.
Il Russia–gate: un problema anche per Israele?
La visita di Trump in Israele arriva in un momento particolarmente delicato per il presidente USA: pochi giorni dopo il licenziamento del numero uno dell’FBI Comey che stava indagando sulle sue presunte relazioni con la Russia, il neo presidente è accusato di aver rivelato proprio alla Russia alcune informazioni classificate relative all’ISIS in occasione di un suo recente incontro con il ministro degli esteri russo Lavrov. Intanto, il Dipartimento di Giustizia USA ha nominato l’ex direttore dell’FBI Robert Müller alla guida dell’inchiesta sulle presunte interferenze del governo russo nella campagna elettorale americana e il nome di Jared Kushner, genero e consigliere di Trump (in viaggio con lui), è trapelato come “persona di interesse” nelle indagini. Se l’accusa di aver rivelato informazioni riservate alla Russia fosse confermata, Trump avrebbe in questo modo messo gravemente a rischio le relazioni fiduciarie e la collaborazione con importanti fonti di intelligence nella lotta al terrorismo in Medio oriente e in particolare in Siria (dove la Russia è il principale alleato del regime di Assad insieme all’Iran e Hezbollah, entrambi considerati da Israele, ma anche dall’amministrazione Trump, come la principale minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico). Ma soprattutto, secondo un articolo del New York Times, sarebbe proprio Israele – uno dei principali e più importanti alleati USA nello spionaggio in Medio oriente – la fonte dell’intelligence (o almeno di parte di essa) rivelata da Trump, che in un tweet ha rivendicato “l’assoluto diritto” di condividere informazioni con la Russia nell’interesse della lotta al terrore. Se l’accusa fosse confermata, però, è evidente che le relazioni USA e Israele (così come quelle con tutti gli altri paesi che condividono intelligence con gli USA) ne uscirebbero seriamente compromesse, e di questo rischio l’inquilino della Casa Bianca dovrà tenere conto in occasione della sua visita a Gerusalemme.
(Fonte: ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)
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