Con il ritiro di Raúl Castro e il passaggio di consegne a Miguel Díaz-Canel, a Cuba dopo ben sessant’anni volge al termine un’era: quella dei Castro. Iniziata con l’ascesa al potere del líder maximo Fidel nel 1959, è continuata nell’ultimo decennio con le prime aperture e riforme intraprese da suo fratello Raúl. Che oggi, ottantaseienne, lascia il potere. Dalla morte di Fidel alla storica distensione con gli Stati Uniti di Barack Obama, passando per le devastazioni dell’uragano Irma, l’isola della “rivoluzione del Che”, dell’invasione della Baia dei Porci e della crisi dei missili del 1962 torna al centro dell’attenzione mondiale. Cosa succederà ora? Siamo davvero all’inizio di una nuova era? Il regime socialista è pronto a riformarsi? Cosa si prospetta per l’economia, le istituzioni, la società e le relazioni internazionali dell’isola? E cosa cambia per Cuba dopo l’ascesa di Trump?
Il dopo-Castro e la paura dei cubani
Cuba non è mai come appare: poiché l’Assemblea Nazionale elegge il Consiglio di Stato e il Consiglio di Stato elegge il nuovo presidente che di cognome fa Díaz-Canel, tutti dicono che finisce l’era Castro. Ma non è vero: ad oggi, tutto cambia sull’isola perché nulla cambi. Di presidenti che non si chiamavano Castro, Cuba ne ebbe due. Il primo l’aveva messo in sella Fidel dopo la Rivoluzione. Dopo pochi mesi lo tirò giù dal cavallo; dovette fuggire in esilio. L’altro era una sua pallida controfigura: morì suicida, qualcuno dice suicidato, nel 1980.
Ma il punto non è questo. Basta leggere la Costituzione cubana, per quel che vale: “la forza dirigente della società e dello Stato”, recita l’articolo 5, è il partito comunista. E chi è il segretario del partito comunista? Raúl Castro, che tale rimarrà per altri tre anni, se la biologia o la provvidenza glielo consentiranno, trattandosi di un dinosauro quasi novantenne, seduto sugli scranni del potere dal 1959. Ma non è tutto: chiunque conosca un po’ di Cuba e della sua storia, sa bene che quello cubano è stato ed è un regime militare. Per essere più precisi: un regime di Croce e Spada, alla antica usanza ispanica; la Croce del sacerdote evangelizzatore che predica ed esige fedeltà alla religione del regime; la Spada che impone unanimità e disciplina, pena il duro castigo che tocca agli eretici. E chi comanda le forze armate cubane? Raúl Castro, di nuovo; sempre dal 1959. E chissà, si domandano in molti, se di qui a tre anni non ci sarà un altro Castro pronto a prolungare la dinastia? L’identikit circola già.
Ma si sa, Cuba è terra di miti. E ai miti crede chi di miti ha bisogno, chi alla realtà preferisce i suoi sogni, ai fatti la sua fede. Da ciò la ricorrente voce di “transizione” a Cuba, dove l’unica parola ammessa è semmai “conservazione”. D’altronde il mondo è pieno di gente che crede che a Cuba ci siano meravigliose scuole e fantastici ospedali, benché le scuole e la sanità di cui beneficia il cubano medio siano tremende; di devoti che credono sia una società basata sulla fratellanza e l’egualitarismo, quando quella cubana è una delle società più gerarchiche al mondo e un abisso separa chi ha dollari da chi non ne ha, la nomenclatura dal tanto evocato “popolo”; e stracolmo di ingenui che tornano dalla settimana al tropico all inclusive felici di aver fatto un tuffo nel passato, un passato dove non resisterebbero due giorni toccasse a loro viverci, perfino di dongiovanni convinti di avervi spezzato cuori, salvo ricevere letterine dalle inconsolabili amanti che chiedono loro un paio di scarpe per il figlio, un aiutino per tirare avanti. Non sanno, come non sapevano ma scoprirono sbalordite certe antropologhe statunitensi accorse a studiare come si vive in paradiso, che la cubana media dedica sette ore al giorno a procacciarsi e preparare il cibo, tra code ai negozi, trattative al mercato nero, blackout elettrici e tutto il resto.
Eppure qualcosa si muove e quando qualcosa si mette in moto nessuno può mai sapere quali meccanismi inneschi. Nemmeno a Cuba, soprattutto oggi: già, perché per quanto tutti ripetano che il disgelo voluto da Obama non abbia prodotto nulla e che nulla è cambiato sull’isola, dicono il vero ma solo a metà. È vero che non è cambiato di un apice il regime, che gli indipendenti che si sono candidati alle elezioni sono stati estromessi con la forza, che la repressione d’ogni minimo dissenso è la solita di sempre ed è vero che l’attività economica privata è oggetto di mille vessazioni; che la miseria, infine, non la prosperità, rimane l’orizzonte ideologico del regime, la fonte inesauribile del suo potere, di un regime da sempre più imbevuto di Vangelo che di Capitale.
Ma è anche vero che ciò che in fondo il disgelo perseguiva sta poco a poco avvenendo: saranno i turisti, saranno le star in visita, sarà la lenta ma capillare diffusione di internet, sarà che nulla, nemmeno un’isola mummificata, è impermeabile al mondo che cambia intorno, ma la scatola si sta aprendo. Dunque? Nulla, per ora nulla, né nessuno si aspetta nulla da Díaz-Canel. Ma se fino a tempo fa, gettando un cerino a Cuba non c’era da aspettarsi che appiccasse un incendio, oggi non è così e ancor meno lo sarà domani. La scomparsa dell’ultimo Castro, se e quando ci sarà, significherà soprattutto questo: la liberazione dalla paura. Allora potrà accadere di tutto. Nel bene o nel male. Ma almeno Cuba tornerà nella storia.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata nell’edizione in edicola de Il Mattino del 17 aprile 2018
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