“Il complesso di Giano”, Capitolo 13
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“Vedi come la sfida tra il bene e il male si svuota? Nel momento in cui sono vicini si elidono a vicenda, smorzandosi.” Disse lui.
“Dici? Personalmente credevo che ci sarebbe stata una battaglia.” osservò Norma.
“È per questo che sei scesa sola e disarmata in quello che immaginavi essere l’inferno?” rise lui alzando gli occhi verso il pergolato. “Ci sei, CK?”
“Non capisco.”
“E quando mai hai capito? Non ti saresti mai avvicinata a una parvenza di soluzione, ma nemmeno avresti fatto il primo passo, se io non ti avessi guidato, se i tuoi figli non fossero gli ultimi controllori.”
“Ma allora sai tutto.” Norma si sentiva ancora più fallita del solito.
“Li ho selezionati tutti io, i controllori. Tu eri l’ultima scelta, ma servivi per via dei tuoi figli, che hanno poteri straordinari.”
Come al solito andava da un successo all’altro. Un’oca che gira gli universi e le dimensioni senza capire un accidente: questo era lei. Ecco raggiunto il fondo del fondo del fallimento personale, ma almeno c’erano Sam e Ludo. Questo è consolante. Norma fece un sorriso involontario e subito se ne pentì. Pensò che è proprio vero che uno, quando sta a contatto con Male, ne resta affascinato e pian piano si abitua. Norma si sentiva stranamente in pace. Da sempre aveva cercato l’equilibrio, quel pareggiamento di sensazioni che dovrebbe nelle intenzioni essere la rotta verso cui indirizzare i propri passi. Mavalà, mai trovato un tubo. L’unico equilibrio si presentava adesso, in quel punto, sotto un glicine fuori stagione.
“Mi sono consegnata a te. Cosa vuoi fare?” chiese Norma.
“Zucchero?” domandò il cortese ospite. “Il glicine non è fuori stagione. È la stagione che prorompe, non il fiore.”
“Tre cucchiaini, grazie.” Norma non aveva capito l’osservazione.
“Limone?”
“Sì, grazie. Ma che intenzioni hai?” Norma non ricevette risposta.
Spesso quando si parla con una persona di intelligenza superiore – e lui era quello – si ha l’impressione che non capisca ciò che diciamo. Questo perché una mente eletta non ha bisogno di assumere espressioni particolari per significare la propria comprensione, poiché per lei è ovvio capire, e la faccia amorfa si può ascrivere al fatto che il cervello di questo genere di interlocutore sta già formulando il pensiero successivo. Norma si stupì di aver fatto un pensiero così intelligente.
“Sì, hai ragione.”
“Orpo, dimenticavo che leggi nel pensiero.”
“Ammiro il tuo coraggio, Norma.”
“Prendi in giro?”
“Tu ti butti nel buio senza pensare, Norma. E butti anche le persone che ami, perché sei una sciocca.”
“Alla faccia dell’ammirazione! Comunque mi pare di averti già visto.” Parlavano insieme, ma seguendo due conversazioni e due fili logici separati. Come capita nella metà delle conversazioni normali, insomma.
Lui la guardò negli occhi e si trovarono insieme su una macchina. Norma fu colpita da un pensiero. “Ho percorso un’altra volta quest’autostrada con la neve. Ma non era, come oggi, ghiaccio che si turbina con il vento in mulinelli bianchi di fumo freddo. La neve era pesante e c’era la nebbia. Andavo a ritirare il mio abito da sposa ed era il giorno del mio compleanno. Ero con qualcuno che amavo e sono arrivata da una cara amica. E ho brindato con persone che non ho più visto.”
“Dov’eri? Ricordi?”
Un attimo dopo Norma era nel bar del brindisi di quindici anni prima. Era tutto reale, come se quell’uomo potesse viaggiare non solo nelle dimensioni, ma anche nel tempo.
“Ecco dove ti ho visto! Eri lì, nel bar.”
“Sì, Norma, io viaggio anche nel tempo. Se guardi bene, mi vedi lì, nel tavolino di fianco al tuo. Ti osservavo già da allora, ma tu non hai mai saputo guardarti intorno, in nessun senso.”
Un altro che non le risparmiava una critica. La sua stupidità riusciva a mettere tutti d’accordo.
“Ero io che sceglievo i controllori. Andavo in giro e osservavo. Mi ha sempre fatto ridere la gente senza risorse e senza pensieri, che non vede nemmeno in un’intera vita ciò che io vedo in un attimo. Il tempo, lo spazio, i dubbi, la paura. E credono anche di non farcela, a trascinarsi nella normalità. Tu sei sempre stata una povera illusa, sempre fuori luogo, sempre con la calzatura più inadatta all’occasione. Ti ho scelto per questo.”
“Perché sbaglio sempre le scarpe?”
“No, perché tu credi a tutto. Sei così ingenua e sprovveduta da sembrare quasi geniale. Ti ho scelto per questo. E per i tuoi figli, ovviamente. Eppure quando ti ho scelto non li avevi. Comunque no, non sei geniale.”
E figuriamoci se non infieriva. Vabbè, lasciamo perdere. Norma cambiò argomento. “Non so il tuo nome. Come ti chiami?”
“Sebastiano.”
Sebastiano. Infatti sembrava un martire trafitto, non un grande malvagio.
Ancora una tazza di tè, un paio di biscottini e qualche parola e la cattiva sarebbe diventata lei, ne era certa. Forse mi ha drogata per eliminarmi. O forse mi ha avvelenata, per fare prima.
“Mavalà, Norma. Ha ragione CK, tu guardi troppa roba americana. Non ti ho drogato né avvelenato. Ho avuto decine di occasioni per ucciderti e poteva farlo anche Nicola, quello che tu chiami Belzebù.” Disse Sebastiano.
Ma insomma, perché quel diavolo con un nome da santo continuava a tergiversare? Norma si stava spazientendo. “Te lo chiedo un’altra volta. Adesso cosa intendi fare, Sebastiano?” Se pronunciare il nome del nemico aiuta a impadronirsi della sua anima non era quello il caso. Norma sentiva semmai la propria anima scivolare non si sa bene dove, ma in fondo.
“Niente, credo che morirò.”
Ma come? Tutti quei cadaveri, tutti i misteri, tutto questo pasticcio. Ma non potevi spararti senza ammazzare nessuno? Tutta questa tragedia per limitarti a morire?
“Sì, per limitarmi a morire.” Confermò Sebastiano, sempre più martire trafitto.“Vuoi assistermi? È per questo che ti ho chiesto di venire. Vorrei anche salutare i due controllori che restano, soprattutto il piccolo Samuele.” Sentire nominare suo figlio da quella creatura non le diede il brivido terrificante che si sarebbe aspettata. Lì nell’antro soleggiato del Male, dove avrebbe dovuto farsi più sentire, la fitta non c’era.
“Come puoi chiedermi una cosa simile? Ho visto centinaia di cadaveri e quei morti erano vittime tue e c’erano anche bambini, c’era anche Essem. Ma tu non sai nemmeno chi è, Essem.”
Sebastiano cambiò argomento.
“Vuoi sapere la verità? Per distruggere l’universo bastava portare un limone in un’altra dimensione, ma doveva essere quello giusto. Non l’ho trovato, perché ce l’avevi tu in frigo.”
Eh? Aveva sentito bene? Forse nel tè c’era un allucinogeno, forse lei era allucinata da anni e tutto, dall’inizio della storia fino a quel momento, era una specie di incubo. Forse era caduta tornando dal mercato e aveva battuto la testa.
“Cosa? Intendi uno dei limoni che mi ha regalato il fruttivendolo al mercato? Ma questa è davvero la peggiore delle trovate della più stupida delle sceneggiature. Mi spiace, ma non è credibile. Trova qualcosa di meglio.”
“Ho continuato a portare avanti e indietro persone, astronavi, edifici, cose e cose e anche casse di frutta per centinaia di dimensioni e non è servito a niente. Volevo distruggere tutto e invece tutto restava com’era. Si distruggeva da solo, magari, ma senza il botto finale. Solo alla fine ho capito che basta portare l’oggetto giusto nel mondo sbagliato e tutto collassa. Era così semplice che avresti potuto intuirlo persino tu.” Sebastiano chiuse gli occhi. “Non mi sento bene. Mi accompagni in casa che mi sdraio sul divano?”
Norma, inebetita, obbedì e mentre lo scortava, si poneva legittime domande. Ma come fa il cosmo a girare intorno a uno stupido agrume? E non uno qualunque, ma proprio uno di quelli che il fruttivendolo del mercato ha voluto per forza regalarmi? Ma sarà logico? Sarà verosimile?
La verosimiglianza, Norma. Ah, la verosimiglianza. Come se a qualcuno interessasse. Tutto si svolge trasversalmente e la verosimiglianza si conforma solo in un secondo tempo alle bugie e alle incongruenze del tutto, a volte per suo spontaneo moto a volte con ampio aiuto esterno. La verosimiglianza è credibile quanto l’universo infinito, in quale è infinitamente non attendibile.
Siccome era tutto decisamente assurdo, Norma decise che era giunto il momento di fare l’ennesima domanda del cavolo. “Ma chi era il venditore?”
“Un mezzo matto di controllore che si è ucciso per non farsi trovare da me, perché non scoprissi il puerile trucco di nascondere la chiave dell’universo in un limone e affidarla proprio a te, spingendoti ad andare in giro per distrarmi. Sapeva che tu non saresti mai arrivata alla soluzione, ma i tuoi figli sì, e anch’io. Quello che non sapeva è che mi sarei stancato.”
Io non ci arrivo mai alle soluzioni, si sa.
“E adesso cosa devo farmene del limone?” Altra domanda del cavolo.
“Non lo so. Sapevo come usare l’arma per distruggere, ma non come distruggere lei.”
“Andiamo bene.” Come dovrà mai comportarsi uno che conserva l’arma di distruzione universale in frigo e non lo sa nemmeno se il diavolo o chi per esso non gli fornisce qualche utile consiglio a riguardo?
Sebastiano era sempre più pallido, come se il sangue stesse defluendo fuori dal suo corpo attraverso una ferita invisibile.
“Hai preso del veleno?” gli chiese.
“Tu non sai, Norma, non sai quali poteri un essere umano può sviluppare. Tu proprio non capisci, poverina, che muoio perché voglio. Ti prego, chiama i bambini e falli venire qui. Ho bisogno di dire qualcosa agli ultimi veri controllori.”
Norma non se la prese troppo per gli ultimi complimenti ricevuti. La sua inadeguatezza in tutte le occasioni la conosceva già da sé. E se lui stesse interpretando la scena del moribondo solo riunire nella stessa stanza gli ultimi tre controllori rimasti per eliminarli tutti insieme? Una volta eliminata la povera oca senza qualità e i suoi figli niente gli avrebbe più impedito di prendere il limone.
Estrasse la spadina di Murukai dalla tasca, gliela puntò contro e disse. “Farai loro la stessa cosa che hai fatto a Essem?”
Sebastiano impallidì. “No, no. Mettila via, ti prego.” gridò toccando la punta dell’arma giocattolo.
“Prometti che non farai loro alcun male.”
“Prometto.”
Norma non sentì la fitta nemmeno in quel momento e per questo, contraddicendo ogni buonsenso, chiamò Gabriele.
“Venite qui, per favore. Adesso.” Lo pregò Norma.
“Cosa è successo?” chiese lui.
“Niente. Sebastiano sta morendo e vuole vedere i bambini.”
“Chi è Sebastiano? Sta morendo? L’hai ucciso? I bambini? Vuoi che porti lì i bambini? Ma sei impazzita?”
“Fidati di me, Gabriele. Lui ha promesso che non farà del male a nessuno.”
“E tutti quei morti? Vuoi che Samuele e Ludovico facciano la stessa fine? No, io vengo con i carabinieri, la polizia e anche l’esercito. Oppure da solo. Tu sei sempre stata avventata, Norma, e adesso non sei in te. Ha promesso? E tu gli credi?” chissà perché, ma Gabriele credeva a tutte queste assurdità. Ci credeva con trasporto. Doveva amarla proprio tanto oppure lei doveva aver battuto la testa davvero molto forte, quella mattina al mercato.
“Sì, gli credo.” Era calma, per la prima volta senza fitta, lucida. “Portali qui. Ti supplico.” Sebastiano non li avrebbe uccisi. E comunque, se voleva ucciderli, poteva farlo comunque. Se così fosse lei voleva essere vicino ai suoi bambini. Ma lui non li avrebbe uccisi, perché aveva promesso.
“E va bene, Norma. Arriviamo. Al limite il mio amore per te avrà distrutto le nostre vite e l’universo. Oppure non c’è niente di sensato e sono soltanto impazzito.” Niente di che, insomma.
Norma non disse più una parola perché ormai non c’era motivo. Aspettava ed era una delle tante attese che aveva affrontato, ma, paradossalmente, non la peggiore, perché infine la fitta era scomparsa, come se lei fosse per la prima volta dove doveva essere. Una liberazione, essere nel posto giusto al momento giusto.
Una liturgia di pentimenti, la mia vita. Meglio dei rimpianti. Meglio nessuno dei due, se io fossi meglio di così. Sbaglio di continuo. Mi aspetto sempre qualcosa, aspetto sempre qualcosa. Forse non finirò i miei giorni nell’attesa. Forse il mio stupido karma è cambiato. Almeno stavolta non ricomincio da sola, se c’è da ricominciare. Non finirò da sola, sempre che sia la fine. Sempre che tutto ciò non sia soltanto nella mia testa, che ho battuto quel giorno al mercato rionale.
“Mamma, mamma.” Eccoli, erano arrivati. Norma corse loro incontro, come se avesse passato vent’anni in un’isola deserta e non a bere un tè in una splendida villa con l’ex-aspirante distruttore dell’universo.
Ludovico e Samuele la abbracciarono e poi andarono da Sebastiano.
Ludovico rimase un po’ distante, mentre Samuele gli prese la mano.
“Perché cercavi di distruggere l’universo?” gli chiese Ludovico. Norma aveva paura di quel bambino freddo e per un attimo le passò per la mente che forse Sebastiano da piccolo era stato così.
“Non me lo ricordo più, sai? Prima pensavo di saperlo, ma adesso non lo so. Non me lo ricordo più. Ora è meglio che me ne vada.” L’insensatezza del male è un discorso breve.
“Perché stai morendo?” gli chiese Samuele. “Perché non mi hai detto che soffrivi?”
“Perché ho ucciso Essem. Sai che c’è una sola sillaba tra mi perdo e mi perdono? Un no. Un giorno il no si è perso e non ho più potuto perdonarmi. È successo quando ho ucciso Essem. Scusami, forse non dovrei parlarvi così. Siete troppo piccoli.”
“Non preoccuparti, andrà tutto bene.” disse Samuele.
La stessa frase che gli ripeteva lei ogni volta che qualcosa lo preoccupava o spaventava. Norma si sentiva una misera cosa, ma in fondo non era proprio del tutto inutile. A qualcosa serviva anche lei. Certo che Samuele e Ludovico capivano molto più di lei. Non le erano venute in mente le domande fondamentali, ma solo scemate collaterali. Per la metafisica, per la Verità, aveva dovuto aspettare due bambini.
Dai, almeno si era liberata della fitta, che si era in qualche modo trasmessa a Sebastiano, e per questo si sentiva sollevata.
(segue)
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