Un’agenda per la crescita

Pubblicato il 30 Dicembre 2011 in da redazione grey-panthers

Le aperture

Il Corriere della Sera: “Conti a posto, ora la crescita”. Le parole sono quelle di Mario Monti, ieri in conferenza stampa. “Dalle liberalizzazioni al lavoro, l’agenda del premier. ‘Gli avvoltoi non ci mangeranno’. Monti: negozieremo con le parti sociali, ma scelte rapide”. L’editoriale è firmato da Dario Di Vico: “Una debole luce in fondo al tunnel”. Da segnalare in prima pagina anche una lettera dell’ex ministro Giulio Tremonti: “Tra democrazia e finanza. Siamo tutti in guerra contro il debito”. A centro pagina il quotidiano si occupa dell’Ungheria che “preoccupa l’Europa”. “L’uomo forte Viktor Orban tra populismo e stretta sui media”.

La Repubblica: “Monti: non farò un’altra manovra. Il premier: inizia la fase cresci-Italia, spread ingiustificato. ‘Conti al sicuro. Sì al confronto, ma agiremo subito su lavoro e concorrenza’”. E poi: “Berlusconi: concordi tutto con noi. Bersani: alt sull’articolo 18. Di Pietro: è come Silvio”. A centro pagina si parla delle proposte del ministro della Salute Balduzzi: “Tassa su alcolici e ‘cibo spazzatura’”. Gli introiti serviranno a “costruire nuovi ospedali”.

Il Sole 24 Ore: “Monti: crescita, non altre manovre. Il premier: la correzione era un atto dovuto, ora avanti con il ‘Cresci Italia’. Berlusconi: bene, ma ci consulti. Bersani: bagno di realtà”. “Entro il 23 gennaio liberalizzazioni, infrastrutture, Sud e via al dialogo sul lavoro”.

Il Giornale: “La crescita c’è. Della rabbia. Il fine d’anno di Monti: tre ore di conferenza stampa. Per fare una sviolinata ai tedeschi e non dire nulla agli italiani. E Berlusconi avverte: ‘Nuove tasse sarebbero inconcepibili'”.

Libero: “Tassa sulla casa, ci si salva così”. Dove si propongono “le risposte degli esperti alle domande dei nostri lettori sulla manovra”. Sulla conferenza stampa di Monti scrive il direttore Belpietro: “La lezione del prof. Tante parole per non dire nulla”.

Monti

Dario Di Vico, sul Corriere della Sera (“Una debole luce in fondo al tunnel”), scrive che dalla conferenza stampa di ieri è emerso sicuramente che “gennaio sarà il mese delle riforme”, e che “il timing delle scelte che opereremo su liberalizzazioni e mercato del lavoro sarà scandito da appuntamenti già calendarizzati con l’Ue”. Di Vico spiega anche che ieri Monti ha fornito una “ghiotta anticipazione” sull’economia italiana: l’avanzo primario strutturale è arrivato al 5 per cento, performance che “ci riporta ai migliori risultati della seconda parte degli anni 90”. Se pagassimo un debito del 2 o 3 per cento sarebbe “una manna”, ma dovendo sborsare oltre il doppio ogni vantaggio sarebbe annullato. Per questo occorre “uscire edal tunnel ed evitare di continuare a pagare tassi da ‘usura globale'”, dice Di Vico.

Su Il Foglio si dà conto di una risposta di Monti ieri in conferenza stampa: “L’Italia sta operando in sede di emendamenti sulla disciplina di bilancio perché ci sia maggiore serietà ma anche rafforzamento dell’unione economica”. Scrive il quotidiano che “il Patto da emendare è quello annunciato il 9 dicembre scorso dai capi di stato e di governo a Bruxelles, che fissa limiti più rigorosi a deficit e debito di 26 stati membri dell’Ue (Regno Unito escluso), e introduce controlli e sanzioni sovranazionali di più facile applicazione. Un patto “politico” che per l’Italia prevede tra l’altro l’impegno a una riduzione drastica del suo debito pubblico (con tagli annui di un ventesimo del debito in eccesso rispetto al 60 per cento del pil) e che entro marzo, una volta firmato dai leader del Vecchio continente, si trasformerà in un vero e proprio accordo intergovernativo. Il “giallo” sull’azione del governo in realtà non è del tutto risolto, visto che nel frattempo una “norma capestro” sul debito entrerà comunque in vigore già nel 2012, indipendentemente da nuove decisioni degli stati membri”. Secondo Il Foglio, al prossimo vertice Ue l’Italia “vorrebbe definire al meglio un “regime transitorio” di applicazione della norma taglia-debito pubblico, affinché si tenga conto dell’andamento del ciclo economico e di grandezze come il risparmio delle famiglie (che posizionano il nostro paese tra quelli più virtuosi). Monti ha insistito su altre due bandiere di cui si farà portatrice Roma, ovvero l’“aumento del Fondo salva stati” e una “maggiore integrazione” del mercato interno, vecchio pallino dell’ex commissario europeo”. Ma nel frattempo, “lo scorso 13 dicembre” “nel silenzio mediatico, è entrato in vigore il nuovo Patto di stabilità e crescita rafforzato, le cosiddette misure del “Six Pack”. Si tratta di cinque regolamenti e una direttiva proposte dalla Commissione Ue, approvate dai 27 paesi membri e poi dal Parlamento di Bruxelles. Tale norma prevede che d’ora in poi, per i paesi che non riducono al ritmo di 1/20 l’anno la quota di debito pubblico in eccesso rispetto alla soglia del 60 per cento del pil, scatterà la procedura per deficit eccessivo – con annesse multe – “anche se il rapporto deficit/pil sarà sotto il 3 per cento!”. A regole vigenti, insomma, l’Italia avrà ben pochi margini di manovra, secondo il quotidiano.

Usa

L’inserto R2 de La Repubblica dedica 3 intere pagine alla lunga corsa che iniziano i Repubblicani per trovare, attraverso le primarie, un anti-Obama. La corsa parte dell’Iowa: “Qui, tra fondamentalisti cristiani e fanatici anti-Stato, i militanti conservatori saranno i primi a scommettere su chi ha le carte migliori per riconquistare la Casa Bianca”. Se ne occupano Federico Rampini e Vittorio Zucconi. E’ “la corsa dei sette nani” che sfideranno Obama: da Romney, mormone e favorito, a Gingrich, dal liberale e libertario Ron Paul a Rick Perry, dalla fondamentalista evangelica Michelle Bachman all’outsider (mormone) Huntsman, fino all’antiabortista e anti-evoluzionista Santorum. Vittorio Zucconi sottolinea che “dietro un candidato nano può nascondersi un gigante”, e che la storia delle primarie americane conta tante sorprese: un nome per tutti è quello di Ronald Reagan.
Christian Rocca su Il Sole 24 Ore: “I repubblicani senza l’economia. Lo slogan dei sette conservatori è “licenziare Obama”, ma  manca una ricetta anti-crisi”. Il favorito, Mitt Romney, è il più preparato e all’inizio ha giocato la carta del tecnocrate, ma ora ha capito che è più attraente presentarsi come leader che come manager. La gara dei Repubblicani parte dall’Iowa, nel Midwest, un tempo tutta prateria e ora granaio dell’impero, soprattutto grazie ai finanziamenti federali, che sarebbero meno generosi se il processo politico che conduce alla Casa Bianca non partisse da qui. Tre milioni di abitanti, l’Iowa è lo stato natio di John Wayne e dei romantici ponti di Madison County. Soltanto nel mese di dicembre, i repubblicani hanno speso dieci milioni di dollari sulle tv dello Stato. E il fronte dei finanziamenti elettorali è l’unico su cui Obama ha un indubitabile vantaggio strategico sugli avversari: secondo Rocca “salvo sorprese, il prossimo presidente sarà il candidato che avrà convinto gli americani con la ricetta più adatta per uscire dalla crisi. Obama ha iniziato a mutare il suo messaggio in senso populista, e ha puntato tutto sulla difesa del ceto medio, minacciato dalla casta dei ricchi e dei privilegiati”.
Non è detto che Romney vinca nei caucus dell’Iowa, poiché gli elettori di questo Stato sono molto conservatori, soprattutto sulle questioni sociali, e Romney non è il loro candidato, anche perché mormone.
Anche su Il Corriere della Sera, una pagina di approfondimento sulla corsa alla Casa Bianca, con ritratti degli sfidanti, il tutto a cura di Massimo Gaggi. Le primarie repubblicane partiranno il 3 gennaio.

E’ dedicato alla Cina l’ultimo libro dell’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger. A recensirlo è Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa, che coglie, dalla lettura del volume, il concetto di “coevoluzione” per descrivere i rapporti tra Pechino e gli Usa: più adeguato che “partnership”, significa che entrambi i Paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile, e regolando le loro relazioni in modo da ridurre al minimo i conflitti. Le due potenze sono accomunate dal fatto di essere state convinte di avere un ruolo speciale, con la differenza che la Cina non ha mai seguito il principio universalistico di diffondere i propri valori in tutto il mondo.

Francia

La Stampa ricorda che siamo a 114 giorni dalle elezioni presidenziali in Francia: gli ultimi sondaggi danno Sarkozy secondo, fermo al 20 per cento, perché in testa ci sarebbe il segretario socialista Hollande, che è arrivato al 24 per cento. Terza nelle intenzioni di voto è la leader del Front National Marine Le Pen: è al 16 per cento, ma è prima fra gli elettori delle “categorie socio-professionali sfavorite”, poiché tocca un 26 per cento. Nella lista seguono il centrista Bayrou (con il 15 per cento), il candidato più a sinistra, Ménenchon (9 per cento), la candidata dei verdi Eva Joly (7 per cento) e l’ex premier De Villepin, arcinemico storico di Sarko, con il suo 3 per cento. Complessivamente però gli scettici, quelli convinti che nessuno dei candidati risolverà i suoi guai, si attesta sul 29 per cento, e Hollande sembra prevalere più per demeriti di Sarkozy che per meriti suoi. La Le Pen punta al ballottaggio.

Su Le Monde, segnaliamo una intervista allo storico Vincent Duclert, cofondatore di un gruppo di lavoro internazionale a sostegno della libertà di ricerca in Turchia: l’intervista è dedicata al voto dell’Assemblea nazionale che considera reato penale la negazione del genocidio degli armeni. Lo storico è critico, dice che la verità storica non ha bisogno di una legge per affermarsi, e che anzi c’è un rischio di indebolimento. Duclert ricostruisce le modalità con cui si arrivò al genocidio e ricorda che il giornalista turco di origine armena Hrank Dink, assassinato nel 2007, aveva protestato contro una legge che minacciava la ricerca, e per quanto sia potente l’offensiva negazionista, la soluzione sta nello sviluppo della ricerca. E alla Francia rimprovera: “Quando il ministro degli esteri Juppe è andatro ad Ankara, in ottobre, non si è preoccupato della sorte dei ricercatori imprigionati in questi mesi in Turchia”.

Ungheria

Una intera pagina del Corriere della Sera è dedicata alla situazione politica nell’Ungheria governata da Viktor Orban: “Bavaglio alla stampa, deputati in manette, l’Ungheria di Orban spaventa l’Europa. Anche la Clinton è intervenuta contro la deriva autoritaria del premier”. E poi: “Dopo aver infarcito la Costituzione di riferimenti al nazionalismo magiaro, ora vuole riformare la legge elettorale per favorire il suo partito”. Secondo i critici, con la nuova legge elettorale Orban potrebbe restare al potere con un terzo dei voti. Orban, già speranza social-liberale negli anni della opposizione al regime comunista, “farnetica sul ritorno della ‘Grande Ungheria’”, come scrive il Corriere; minaccia di ridurre la Banca centrale a semplice “ufficio bolli” dell’esecutivo, e di soffocare definitamente i giornali. Dal 23 dicembre i deputati dell’opposizione si sono incatenati davanti al Parlamento. Lamenta la situazione in Ungheria Giorgio Pressburger: “Povero Paese che tradisce la sua storia”. Tra due giorni l’Ungheria avrà una costituzione votata da un parlamento dominato da una maggioranza che ha conquistato più del sessanta per cento dei voti. Significherà che tutti i mezzi di comunicazione saranno sottoposti a uno stretto controllo governativo. L’ultima emittente radiofonica indipendente, Club Radio, sarà chiusa in febbraio. L’Ungheria non si chiamerà più Repubblica ungherese ma “Paese magiaro”. E anche la scelta dei magistrati dipenderà dal governo, così come l’assegnazione dei processi a questa o quella sede.

Primavera araba, cristiani, curdi

“La primavera araba non è ancora finita”, titola La Stampa, presentando un dossier dedicato ai Paesi in cui i moti hanno messo in movimento l’altra sponda del Mediterraneo: Tunisia, Egitto, Libia e Siria. Chi comanda dopo le rivoluzioni (Tunisia), in quali Paesi si è ancora in cerca di un leader (Egitto), dove la rivoluzione va al rallentatore (Libia), quale è l’anello debole del nuovo grande gioco (la Siria, stretta tra l’Arabia sunnita e l’Iran sciita).

Sul Sole 24 Ore si riferisce della decisione Usa di vendere aerei da guerra all’Arabia Saudita: un contratto da 29,4 miliardi di dollari, per una flotta di 84 nuovissimi cacciabombardieri F15S, e la modernizzazione di 70 velivoli della aeronautica reale saudita. E’ una boccata di ossigeno per la Boeing, una iniezione occupazionale per l’economia Usa. Ma secondo il Sole, è innanzitutto un messaggio rivolto agli iraniani, come si evince dal comunicato della Casa Bianca: “Questo accordo manda un messaggio forte alla regione, rinvigorisce il già solido e duraturo rapporto” tra Usa e Arabia Saudita. E dalle parole di Andrew Shapiro, alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa, secondo cui l’accordo manda “un forte messaggio ai Paesi della regione che gli Usa sono determinati a mantenere la stabilità del golfo e dell’intero Medio Oriente”. Sulla stessa pagina, la risposta dell’Iran agli Usa, che avevano detto “la chiusura dello stretto di Hormuz non sarà tollerata”: il comandante aggiunto di Pasdaran, Salami, ha fatto sapere che “gli americani non sono nella posizione di dire all’Iran cosa fare nello stretto di Hormuz”. Alle pressioni nei confronti dell’Iran, ha fatto riferimento anche il presidente del consiglio Monti che ha in qualche modo aperto all’ipotesi di un embargo petrolifero

Il Corriere della Sera si occupa di Egitto: un anno fa, ad Alessandria, 21 fedeli copti vennero uccisi alla messa di capodanno. Ora che il Natale si avvicina (cade il 7 gennaio) l’allarme torna a salire, ma questa volta l’allerta è in prima pagina sui giornali ed è diventato elemento del dibattito politico: al punto che perfino i partiti islamici sono scesi in campo annunciando pubblicamente ronde a difesa delle Chiese e dei fedeli, come hanno fatto i Fratelli Musulmani e persino i vertici del partito Al Nour, il più importante nella galassia dei salafiti, proprio dopo che il portavoce di questo ultimo movimento aveva dichiarato di esser contrario agli auguri di Natale ai cristiani, perché contrario “alle nostre convinzioni”. L’Università di Al Azhar ha emesso una fatwa dichiarando “legittime” le felicitazion ai cristiani per la nascita di Gesù.
Alla pagina delle Idee e Opinioni del Corriere: “Fratelli musulmani a difesa dei copti, un chiaro messaggio all’America”, di Roberto Tottoli.

La prima pagina dell’International Herald Tribune ha una grande foto dalla strage di 35 civili curdi uccisi dall’aviazione turca. Ankara, come scrive anche il Corriere della Sera, ha scambiato dei contrabbandieri per terroristi . E’ accaduto nel nord dell’Iraq, vicino alla città turca di Uludere, e lungo una strada utilizzata per il contrabbando di sigarette.

Sulla prima pagina di Le Monde, una foto dalla Nigeria, dove è in corso il ciclo delle rappresaglie dopo gli attentati di Natale, nei confronti dei cristiani, rivendicato dal gruppo islamista dei Boko Haram: “La paura di una guerra di religione in Nigeria”, con una lunga corrispondenza alle pagine interne.

E poi

Su La Repubblica continua il dibattito sull’Europa, anche alla luce della lettera del Presidente della Repubblica alla rivistaReset. Le parole del Presidente animano anche il dibattito a sinistra, per il richiamo alla elaborazione in senso riformista delle risposte da dare ad un mondo più globalizzato e più competitivo. E per quelle parole dedicate alle “degenerazioni parassitarie” del welfare. A leggere l’intervento del Capo dello Stato è oggi, dalle pagine de La Repubblica, Miguel Gotor, che si sofferma sulla crisi della forma partito, sulla progressiva usura dei tradizionali canali della democrazia negli Stati nazionali, sulla deriva oligarchica della politica e sulla contemporanea necessità di una direzione della politica che contrasti i furori espansivi degli spiriti animali dell’economia. Una scommessa per i progressisti europei, guidare il rilancio della integrazione europea in un quadro di equità. E sullo stesso quotidiano, da segnalare, ancora sulla crisi europea e l’intervento di Napolitano, una analisi dell’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, tratto dalla rivista Tamtam democratico: “i leader mettano il cuore per salvare l’Unione”. Serve “razionalità europea”, ma anche “un cuore che sappia immedesimarsi nei nostri vicini e partner”.

Sul Corriere della Sera Ennio Caretto riferisce di un simposio tenutosi il mese scorso a Mosca, promosso da Gorbaciov, che completerebbe la storia “segreta” della caduta dell’Urss, a venti anni dalla sua fine: la Cia ha desecretato documento che confermano come l’Amministrazione Reagan, e poi quella di Bush padre, avessero anticipato la fine dell’Urss e come vi avessero contribuito con l’appoggio di Woytjla. Tanto Reagan che Bush padre, all’inizio, diffidavano di Gorbaciov, anche perché la Cia sospettava che volesse soltanto “un po’ di respiro per rimettere in piedi l’Urss”. Solo nel settembre 1989, due mesi prima della demolizione del muro, la Cia ammette che i cambiamenti promossi o accettati da Gorbaciov “segnalano la probabilità di una nuova era, in cui gli Usa potrebbero passare dalla strategia del contenimento a quella dell’inserimento dell’urss nella comunità internazionale”. E nel 1990 gli eventi si susseguono a una velocità che inquieta i servizi segreti americani: dietro loro consiglio, Bush rifiuta di aiutare economicamente Gorbacio, e nel 1991 cerca un altro interlocutore in Eltsin.

DA RASSEGNA ITALIANA, di Ada Pagliarulo e Paolo Martini