Il Corriere della Sera: “Il voto della Grecia fa respirare l’Europa. Vincono i conservatori ‘pro euro’: governo con i socialisti per uscire dalla crisi. Il sollievo di Bruxelles e di Monti. Apertura della Germania: daremo più tempo”.
La Repubblica: “Grecia: resteremo nell’euro”. “I conservatori vincono con il 30 per cento. La Ue: ora sosterremo Atene”.
La Stampa: “Grecia, vince il partito pro euro”. A centro pagina: “Nigeria, stragi di religione. Colpite 5 chiese cristiane: 24 morti. Scatta la vendetta, musulmani linciati”.
Il Giornale: “L’Euro è salvo (per ora)”. A centro pagina, con foto, anche le elezioni francesi: “L’ex marito trionfa, lei scompare. La vita di Ségolène va a rotoli”.
Per L’Unità “la paura spinge la Grecia a destra”.
Grecia
Antonio Ferrari, sul Corriere della Sera, scrive che al voto di ieri in Grecia “almeno il 30 per cento degli elettori” ha cambiato il proprio voto, alcuni raccogliendo la rabbia nel disinvolto serbatoio di Syriza, altri scegliendo la razionalità e la saggezza, anche perché sono in tanti, nonostante le misure capestro che hanno stremato ilPaese al quinto anno di recessione, ad avere molto da perdere con l’avventurismo della sinistra radicale. Ferrari si sofferma anche sul successo del partito neonazista, che tiene. Il leader neonazista è contro gli immigrati, è contro l’accettazione, quindi la legittimità, dei debiti contratti; è pronto a sfidare la Turchia (‘Ci riprenderemo Costantinopoli’) e magari anche la Macedonia e l’Albania. Idee sciocche e risibili che hanno seguito in un segmento rilevante della società greca, soprattutto da chi ciede legge, ordine, le donne a casa e l’assoluto rispetto del capo, cioé del dittatore”.
La Stampa scrive che “in Grecia ha vinto la testa o la paura, a seconda dei punti di vista”. Il leader di Nuova democrazia Antonis Samaras ieri sera “ha promesso di mantenere gli impegni con la Ue, ma ‘negoziando con i partner europei per avere di nuova una prospettiva di crescita”. Il suo partito dovrebbe contare, secondo i dati di questa mattina, su 129 seggi, che non bastano per formare un governo monocolore. Inzieranno dunque oggi le complicate trattative per trovare una maggioranza, probabilmente bipartisan. I socialisti, in calo, hanno conquistato 33 seggi. Il partito di Alezis Tsipras, Syriza, conta sul 26,89 per cento (71 seggi), mentre appena un anno fa non superava il 7 per cento, e un mese fa aveva conquistato il 16,8. . I neonazisti di Alba dorata hanno 18 seggi., e conquistano più o meno gli stessi voti delle elezioni del 6 maggio. La Stampa ricorda anche che il capo del Pasok, Venizelos, ha escluso per ora la formazione di un governo senza Syriza, che però ha ribadito ieri il suo rifiuto a partecipare a governi favorevoli al memorandum.
Entro la fine del mese il Paese deve trovare 11 miliardi di euro per raddrizzare i conti alla deriva, ed è prevedibile che ricomincino le manifestazioni di piazza contro le misure di austerità. Pasok e Nuova Democrazia potrebbero cercare di tirare dentro il governo il partito della Sinistra Democratica di Kouvelis, che garantirebbe all’esecutivo una maggioranza di circa 175 seggi, abbastanza per far votare senza incidenti eventuali piani di risanamento. Ma qualcuno non esclude che il nuovo esecutivo dovrà ricorrere ad un referendum per impegnare fino in fondo il Paese per nuovi sacrifici.
Andrea Bonanni, sulla prima pagina de La Repubblica (“Ma l’emergenza non è finita”) si sofferma sulla “buona notizia” arrivata ai leader europei, che oggi “si presentano” alla riunione del G20 in Messico “con una spina nel fianco in meno” Messico per il G20. Il messaggio che arriva da Atene apre “uno spiraglio di speranza” che non deve essere scambiato per la conclusione dell’emergenza, e soprattutto non deve tradire gli elettori, perché “il vero premio a cui hanno diritto i greci, come gli irlandesi, come i milioni di europei che stanno affrontando sacrifici di cui si era persa la memoria nel dopoguerra”, e quello di “non vedere tradite le loro aspettative e a loro fiducia” nell’Europa e nella moneta unica. Serve insomma “una unione bancaria, che consenta di spezzare il circolo vizioso tra crisi dei debiti sovrani e crisi del sistema creditizio”, una “unione di bilancio”, che “riduca significativamente i margini di sovranità e di discrezionalità dei parlamenti nazionali”, e, più a lungo termine, “una vera unione politica, che dia legittimità democratica alla gestione di un bilancio federale”.
Su La Stampa una intervista al leader dei liberal-democratici al Parlamento europeo, Guy Vehofstadt: “L’importante è che non torni alla dracma”, il titolo. Verhofstadt dice che in realtà non cambia molto, con la vittoria di Samaras. Anche lui, come avrebbe fatto Tsipras, chiederà innanzittuto a Bruxelles una revisione del memorandum siglato con Bce, Ue e Fmi. “Bisogna accettare la richiesta”, secondo l’ex premier belga. “Si può camnbiare qualche condizione, accogliere qualche capitolo aggiuntivo. La verità è che questo piano pesa troppo sulla gente comune, ha tagliato i salari, piegato le retribuzioni minime, aumentato la pressione fiscale, senza allo stesso tempo agevolare le riforme necessarie, senza eliminare i clientelismi, senza aprire veramente il mercato delle professioni per consentire ai commerci di essere più efficienti, senza alleggerire la presenza del settore pubblico”. Secondo Verhofstadt “il memorandum funzionae solo se riesce a cambiare davvero il Paese. Quello che abbiamo ora non lo fa. Non si modifica la struttura di una economia e di un sistema solo attraverso i sacrifici”.
Sul Corriere si dà conto delle dichiarazioni del ministro degli esteri tedesco, Guido Westerwelle, che ieri ha detto: “Posso ben immaginare che si riparlerà dell’arco temporale delle riforme” rigoriste che la Grecia dovrà fare. “Parole che la cancelliera Merkel non aveva finora pronunciato: e forse è questa la svolta che buona parte dell’Europa attendeva, il passaggio dagli ultimatum alla negoziazione. Un passaggio che un domani, chissà, potrebbe valere anche per altri Paesi schiacciati dalla crisi”.
Su La Repubblica Karl Lamers, decano di politica estera ed europea della Cdu di Angela Merkel, dice che è necessario “concedere qualcosa ai greci, senza dare l’impressione che ciò crei svantaggi per gli altri Paesi in difficoltà”, e spera che al vertice europeo si discuta di “cambiamenti nei tempi di attuazione delle riforme”. Sottolinea poi che l’uscita della Grecia dall’euro costerebbe alla Germania almeno 130 miliardi, alla Francia almeno 80.
Ancora su La Repubblica segnaliamo l’opinione dello storico Jacques Le Goff, che parla di “debito storico” della civiltà europea con Atene e loda il governo Monti (“ce la farete da soli”) e quella dello scrittore greco Petros Markaris, che descrive la situazione in Grecia, i negozi chiusi o vuoti “anche nelle zone più eleganti di Atene” e il numero di coloro che cadono in povertà in crescita costante.
Un “retroscena” sul Corriere parla dell’Italia: “Anche Monti d’accordo per dilazionare il piano di rientro: ‘Non c’è più l’ansia’”. Il quotidiano cita “fonti del governo” che spiegano come dopo il voto di ieri si apre uno “scenario positivo” in vista del Consiglio europeo di fine mese”. “Non si dovrà più agire, probabilmente, con l’ansia di dover gestire una crisi ulteriore, imprevedibile, innescata dalla possibile uscita dall’euro della Grecia. Ci si potrà piuttosto concentrare con più serenitàò su un pacchetto crescita europeo che sia quanto di più ampio e concreto possibile, come chiede in queste ore anche il governo francese”. Circolerebbe in queste ore un “piano Hollande”, girato ai principali governi europei, che prevederebbe 120 http://casinoder.com miliardi di euro immediatamente disponibili, da giugno a fine anno, per progetti di crescita economica in Europa. Riconversione di fondi strutturali, una Bei ricapitalizzata per 10 miliardi, in grado di mobilitarne almeno sei volte tanto, e project bonds.
Ancora sul Corriere, nella pagina dedicata al G20 di Los Cabos, in Messico, una intervista all’analista Usa Ian Bremmer: “Ne uscirete più solidi di prima”. Dice Bremmer che l’Europa cammina sul filo del rasoio, e la Germania sta giocando con il fuoco”.
Francia
Scrive La Repubblica che il Presidente socialista francese Hollande avrà le mani libere, visto che il suo partito ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi e potrà governare anche senza tener conto dei Verdi e del Front de Gauche di Jean-Luc Melénchon. Ha il miglior risultato possibile per lui, che non voleva dipendere da nessuno per applicare il suo programma. Il risultato ha un valore soprattutto sul piano europeo, poiché senza l’ipoteca della sinistra radicale potrà anche accettare più facilmente un compromesso con la Cancelliera Angela Merkel. I risultati definitivi danno al Ps, alleato con i radicali di sinistra e i candidati indipendenti, 314 seggi, cioé molto più della maggioranza assoluta (289). A loro si aggiungeranno 17 deputati ecologisti che già fanno parte del governo, e una decina del partito comunista e del Front de Gauche. La destra si ferma a 229 seggi, il Fronte Nazionale non andrà oltre i 3 seggi. Il quotidiano elenca poi le vittime illustri del ballottaggio di ieri: a sinistra Ségolène Royal, sconfitta dal socialista dissidente Olivier Falorni, Jack Lang; a destra Michèl Aliot-Marie, che aveva dovuto abbandonare il ministero degli esteri con Sarkozy dopo la rivelazione delle vacanze pagate dal presidente tunisino Ben Ali, Claude Guéant, ex ministro degli interni con Sarkozy; poi il centrista Bayrou, che nel 2007 aveva conquistato addirittura il terzo posto alle presidenziali, ma quest’anno si era fermato ad un deludente 9 per cento ed aveva annunciato il suo voto personale a favore di Hollande. A quanto pare gli elettori della sua circoscrizione non glielo hanno perdonato, i centristi avranno solo due deputati ed un destino politico difficile, in un sistema fortemente bipolare. Sconfitta invece Marine Le Pen, per soltanto 118 voti dal suo avversario socialista nella cittadina di Hénin-Beaumont, nel cuore della Francia delle miniere e ora della de-industrializzazione, che ha fatto travasare i voti dei comunisti verso quelli del Front National. La Le Pen che siederà però all’assemblea nazionale è Marion, 22 anni, figlia di una sorella di Marine.
Segnaliamo infine da La Repubblica una analisi di Marc Lazar, che ridimensiona le potenzialità che il presidente Hollande ha di incarnare la figura del “nuovo uomo forte d’Europa”: anche in Francia la diffidenza verso i politici è generalizzata, il tasso di astensione alle legislative è stato molto alto, gli indici dell’economia francese non sono buoni e costringeranno Hollande a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare le imposte. Se i toni tra Parigi e Berlino si stanno alzando, è pur vero che, “come al solito, quando i rapporti tra Germania e Francia si fanno più tesi, Parigi si ricorda all’improvviso dell’esistenza di Roma, senza mai pensare però, neppure per un momento, che un accordo tra le due capitali possa sostituirsi alla intesa franco-tedesca”. Del resto tra Italia e Francia i punti di attrito non mancano: ad esempio sull’Europa federale, idea cara all’Italia, o sugli strumenti per favorire la crescita. Il governo socialista francese non è pronto a condividere la politica di liberalizzazioni che Monti si sta sforzando i portare avanti.
Internazionale
La Repubblica scrive che è di almeno 36 morti e di più di 100 feriti il bilancio ufficiale della strage in cinque chiese della Nigeria. Un nuovo attacco ai cristiani, seguito da un linciaggio per vendetta di dieci musulmani “sospetti”. Claudio Gorlier, su La Stampa, sottolinea come siano importanti i fattori etnia e petrolio, più che la religione. Gorlier ricorda che alla presidenza del cristiano Obasanjo seguirono quelle di una serie di dittatori spietati, tutti cristiani Yoruba: uno di loro, “il feroce Abacha, nel 1995, fece processare e giustiziare il mio amico Ken Saro-Wiwa, anglicano ma colpevole di essere lo strenuo difensore degli Ogoni, la popolazione del Delta del Niger ridotta alla miseria per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi”. Aveva denunciato nei suoi scritti la corruzione dei governanti nigeriani, letteralmente comprati dalle grandi compagnie petrolifere internazionali, tra le quali l’Agip. Rispetto a tutto questo, la religione costituisce una superstruttura che copre uno scontro di interessi. Certo, “l’Islam è più preparato, anche ideologicamente, in Nigeria, ad alimentare un conflitto civile in un PAese dove la maggioranza della popolazione ha un reddito di un dollaro al giorno, e dove le strutture tribali ancora resistono”.
La Repubblica intervista il ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione nonché fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, secondo cui “questo non è un piccolo episodio, ma uno sterminio sistematico”. Perché in Nigeria? “Perché è un Paese complesso, un grande Libano di convivenze tra cristiani e musulmani con una frammentazione forte, non risolta dal federalismo”. Un Paese ricco di petrolio, ma anche di grandi povertà. Dove il movimento fondamentalista islamico di Boko Haram vuole la pulizia etnica al nord, e i cristiani sono l’obiettivo”, “perché sono cristiani, perché colpirli fa notizia nel mondo”. Boko Haram, secondo Riccardi vuole “provare un fronte anticristiano che egemonizzi i musulmani locali nigeriani, quello che su scala più grande faceva Al Qaeda”, “colpisce i cristiani per provocare una guerra civile”.
Il Corriere intervista il direttore della comunicazione dell’Arcidiocesi di Abuja, capitale della Nigeria, Patrick Alumuku: “Sono convinto che le vere profonde motivazioni non siano affatto religiose. I giovani erano stati reclutati ed inquadrati da politici che hanno sfruttato la situazione di caos e di insicurezza che domina la parte settentrionale della Nigeria”. Spiega che durante la campagna elettorale molti soldi sono affluiti nelle tasche di tanti ragazzi abituati a non avere nulla, cui sono state fatte delle promesse, poi non onorate: i ragazzi tornati sulla strada, senza denaro e senza prospettive, hanno visto nel terrorismo l’unica possibilità di riscatto.
In Egitto, come scrive L’Unità, i Fratelli Musulmani continuano a dirsi certi della vittoria alle presidenziali: danno il loro candidato Mohamed Morsi al 65-70 per cento dei voti. Secondo rivelazioni i militari vorrebbero mantenere il potere legislativo e di bilancio fino all’elezione del nuovo parlamento. I seggi si sono chiusi alle 22 di ieri e l’affluenza è stata del 40 per cento (rispetto al 46 del primo turno). Lo scontento del fronte laico per entrambi i candidati è palpabile, i movimenti pro-rivoluzione hanno lanciato la parola d’ordine del boicottaggio, rifiutando la scelta tra un ex generale di Mubarak e un candidato della Fratellanza.
Il Corriere della Sera scrive che la probabile vittoria dell’ex generale Shafiq, peraltro ultimo premier del vecchio regime, impedirà sì uno stato religioso, ma non darà garanzie di averne uno “civile”. Il quotidiano raccoglie l’opinione della giornalista Shahira Amin, che diventò un simbolo dando le dimissioni in tv quando le venne proibito di dar notizia dei morti in piazza Tahrir. E’ certa che si sia di fronte ad un colpo di stato militare e che dietro quanto sta avvenendo in Egitto ci sia la regia dell’ex capo dei servizi di Mubarak, Omar Suleiman. E’ convinta che vi sia una campagna orchestrata dai generali che comporta anche false notizie sulla Fratellanza, diffuse dai media legati alla giunta militare: “Hanno scritto che i deputati islamici volevano passare una legge sul diritto alla necrofilia, che volevano rilegalizzare le mutilazioni genitali delle bambine”, “hanno trasmesso spot in tv sostenendo che molti stranieri in Egitto sono spie”, così come “sono loro ad aver compiuto attacchi sessuali a piazza Tahir, sono stati compiuti da sgherri per scoraggiare le donne a tornare in piazza”. Sullo stesso quotidiano, una cronaca racconta la paura delle danzatrici del ventre, poiché i locali sono presi di mira dagli islamici: “Se dovessero vincere loro non potremmo più esibirci”.
E poi
La Repubblica pubblica un estratto dell’intervento dell’arcivescovo di Milano Angelo Scola in occasione del comitato internazionale della Fondazione Oasis, che si apre oggi a Tunisi sul tema “la religione in una società in transizione. Come la Tunisia interpella l’Occidente”. Il cardinale sottolinea che una delle componenti della crisi in Occidente è “la crisi dell’universale della religione”. Mentre la fede si è ridotta a faccenda privata, altri universali secolarizzati hanno fatto la loro comparsa: “La Scienza, la Ragione, il Diritto, la Storia”, poi “più rozzamente la Razza, la Classe, il Mercato”. Tuttavia oggi è evidente che questi universali secolarizzati non hanno mantenuto la loro promessa. Da qui un certo ritorno del religioso in Occidente”. Le elezioni nei Paesi delle rivoluzioni del mondo arabo hanno dimostrato che per la grande maggioranza di queste popolazioni l’Islam continua a svolgere la funzione di riferimento universale. E l’Islam, che è chiamato a “pensare in modo nuovo il tema della libertà”, può trovare nell’esperienza travagliata del rapporto con il cristianesimo ha instaurato con la modernità politica, “tra rifiuto, illusione passatista e assunzione critica delle istanze positive”, elementi utili.
La Stampa intervista Rashid Al-Gannouchi, fondatore del partito di ispirazione islamista tunisino Ennahda. Spiega il suo punto di vista: “La politica deve essere influenzata dalla fede, dalla morale e dalla religione. Tuttavia, ciò non significa che lo Stato sia uno Stato religioso, perché la nozione per cui i governanti sono i rappresentanti di Dio non esiste nell’Islam. Questo fatto implica che la democrazia e l’islam non sono in contraddizione, ma sono compatibili. L’intervista integrale è sul semestrale della Fondazione Oasis, che si riunisce oggi a Tunisi, appunto.