Il Corriere della Sera: “Obama di fronte alla furia islamica”. “Dall’Italia decollano i droni per la caccia ai terroristi di Bengasi”. “Ambasciate sotto assedio al Cairo, Sanaa, Bagdad, per la crisi innescata dal film su Maometto. Clinton: pellicola disgustosa”.
La Stampa: “Assedio alle ambasciate Usa. Sale la tensione in tutto il mondo arabo. Obama: nulla resterà impunito. Attacco nello Yemen, manifestazioni anche in Iran, Marocco ed Egitto. Gelo tra la Casa Bianca e il Cairo”.
La Repubblica: “Islam, America sotto assedio. Assalto alle ambasciate in Egitto e Yemen. La Clinton condanna il film. Cresce la protesta nel mondo arabo. Morsi a Roma: Maometto linea rossa da non superare. Obama invia le navi da guerra”. In prima pagina anche un richiamo per l’intervento di ieri di Matteo Renzi: “La corsa di Renzi. ‘Delusi del Pdl votate per noi’”. “Cosa c’è in quel camper” è il titolo del commento di Massimo Giannini.
Europa: “La missione di Renzi: un Pd aperto ai delusi della destra. ‘Non voglio cambiare il partito ma cambiare l’Italia dei prossimi 25 anni. Tanta gente a Verona, parte la campagna del sindaco di Firenze per le primarie”.
Il Foglio, che dedica l’apertura al “contagio antioccidentale” nelle capitali del medio oriente, si occupa anche della “prima di Renzi al teatro di Verona. Il sindaco di Firenze da ieri è ufficialmente candidato alla premiership del centrosinistra. Nel suo discorso c’è meno epica e più fair play. La ricerca dei voti berlusconiani e un attacco agli ‘ostaggi del 68′”.
Il Giornale: “E adesso il Pd è morto. Renzi si candidat a premier e spacca definitivamente i democratici che pensavano di avere già la risposta in tasca. Vuole i voti del centrodestra per portarli in dote alla sinistra”.
Il Fatto quotidiano apre con indiscrezioni che arriverebbero dalla Corte Costituzionale: “La Corte spiffera: ‘ha ragione Napolitano’. Sei giorni prima del verdetto sull’ammissibilità del conflitto del Quirinale contro i pm, fonti interne anticipano l’ok”. E poi: “Violante interrogato per due ore: già nel 1993 sapeva del ricatto di Cosa Nostra allo Stato”.
L’Unità: “Fiat rottama Fabbrica Italia. Un comunicato anticipa l’annuncio ufficiale previsto per il 30 ottobre. Annullato il piano di rilancio varato solo due anni fa. A rischio due importanti impianti italiani. Landini: situazione preoccupante. Fassina: ma il piano di Marchionne è mai esistito?”.
Il Sole 24 Ore: “Ripresa lontana, cadono i consumi. Squinzi: tutti lavorino per la crescita, utile un’intesa che vincoli i Governi futuri”. “Il centro studi Confindustria: inversione solo tra primavera ed estate, nel 2013 Pil a -0,6 per ceto. Strutturale il pareggio di bilancio”. Di spalla: “Bernanke: ogni mese 40 miliardi di dollari per la ripresa Usa”.
Libero: “Sotto le tasse niente. Da Barca a Riccardi, da Terzi a Ornaghi, da Profumo a Passera: ecco tutto quello che da novembre scorso i ministri tecnici hanno dichiarato e promesso. Ma non hanno fatto”.
Libia, Al Qaeda, Usa.
La Stampa e il Corriere della Sera raccontano che l’Associated Press è riuscita a chiarire il mistero sulla figura del regista del filmato “Innocence of muslims” che ha scatenato la rabbia nel mondo musulmano. Il deus ex machina dell’operazione non sarebbe affatto il cinquantaseienne imprenditore israeliano cercato dai giornalisti di mezzo mondo. Dietro lo pseudonimo di Sam Bacile si celerebbe un certo Nakoula Basseley Nakoula, cinquantacinque anni, copto, ricercatissimo per frode fiscale e con un passato da manipolatore di identità. L’Ap lo ha scovato nella sua casa nei pressi di Los Angeles, seguendo il numero di cellulare fornito dal producer del film.
Ieri intanto è stata presa d’assalto l’ambasciata Usa nello Yemen, manifestazioni ci sono state davanti ai consolati Usa in India, mentre in Iraq una folla di sciiti ha sfilato a Sadr City e altrettanto è avvenuto in Marocco. In Libia, scrive La Stampa, una task force dell’FBi è in campo per dare la caccia agli assalitori di Bengasi, alcuni dei quali sono già stati arrestati. “Non abbiamo prove della presenza di Al Qaeda in qualità di organizzatore”, ha avvertito il premier libico Abu Shagur, specificando tuttavia che “ci sono alcuni giovani influenzati dalla ideologia estremista”, una “minoranza, non più di 100 o 150″. Ma secondo il quotidiano è che l’Egitto che si consuma il rischio maggiore di una crisi politica. Il Presidente Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, ha avvertito che il Profetto “è una linea rossa che nessuno deve toccare”. Da Morsi le condoglianze per la morte dell’Ambasciatore Usa sono arrivate in ritardo, così come la condanna delle violenze. Ha detto Obama, riferendosi all’Egitto: “Non penso che dovremmo considerarli alleati, ma nemmeno nemici. Il rapporto con questo Paese è in evoluzione, anche se in casi come questo vorremmo maggiore reattività alle richieste di protezione del nostro personale diplomatico”. Al Presidente dell’assemblea libica, invece, Obama ha espresso “apprezzamento per la cooperazione”. Nulla di tutto questo nel colloquio con Morsi: parole che sottendono il risentimento nei confronti di un leader arrivato al potere anche grazie alle pressioni Usa sulla ex giunta militare, e al quale Obama è pronto ad “abbonare” un miliardo di dollari di debito. Non si aspettava certo, Obama, che Morsi scegliesse la Cina per la prima visita ufficiale. Poco gradita è stata la partecipazione al summit dei Paesi non allineati in Iran. Per di più l’Egitto è il secondo beneficiario, dopo Israele, degli aiuti Usa: due miliardi di dollari l’anno”.
La Repubblica riproduce l’intervista al presidente Obama realizzata da Telemundo: “La stragrande maggioranza dei libici ha accolto con favore il coinvolgimento degli Stati Uniti: sono consapevoli che è grazie a noi se sono riusciti a sbarazzarsi di un dittatore che aveva oppresso il loro spirito per 40 anni. Molti libici sono accorsi a difesa della nostra squadra a Bengasi, quando siamo stati attaccati”. Poi aggiunge: “Il discorso più generale su quel che è successo in Medio Oriente e in Africa del Nord è che siamo di fronte a democrazie nuove. In Egitto questa è forse la prima democrazia da settemila anni, una autentica democrazia dove il popolo ha potuto dire la sua. Non hanno tradizioni di società civile, non hanno alcuni degli aspetti importantissimi della nostra democrazia. La segretaria di Stato Hillay Clinton ha definito “ripugnante” il film incriminato.
L’inviato de La Stampa si è recato nella villa dove è stato ucciso l’ambasciatore: nella stanza blindata l’area resta irrespirabile ed i colpi di mortaio hanno sfondato il tetto. Raccoglie le voci che si fanno via via più insistenti secondo cui non è stato un corteo, ma una delegazione di islamici che chiedeva un incontro per protestare per il film, ad avvicinare i libici della “blue mountain”, la sicurezza privata del consolato Usa. Sembra sicuro che abbiano aperto il cancello perché sul portone di ferro non c’è né un graffio né una forzatura.
Bernardo Valli su La Repubblica racconta di esser stato raggiunto dalla notizia della morte dell’ambasciatore Usa mentre in trovava in Siria. Ha dato subito la notizia ai suoi interlocutori, guerriglieri appartenenti ad uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Assad. Che hanno reagito con una domanda: “perché proprio l’ambasciatore americano? perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad”. Si è aperto quindi un dibattito tra gli astanti, una volta chiarito che l’ambasciatore non aveva nulla a che fare con il film che ha scatenato le proteste, e che era stato ucciso perché rappresentava gli Usa, dove l’opera blasfema è stata girata. Quello che forse era il capo, ha sostenuto che l’ambasciatore non c’entrava, poiché non era stato lui ad offendere Maometto, un altro ha suggerito di consultare il Corano. Sapendo che non si trattava di una unità salafita e ancor meno jihadista, bensì di guerriglieri nazionalisti, Valli chiede se pensano che la sharia debba essere la legge nella futura Siria liberata. Nuova discussione, non capivano la parola “laici”: quel che è importante per loro è abbattere il rais, il resto è nebbioso. E come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche negli altri Paesi regna un grande caos ideologico di cui approfittano facilmente gruppi di estremisti, lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. “Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è una identità collettiva”.
La Repubblica ha inviato a Tripoli Vincenzo Nigro, che riferisce del comunicato del gruppo integralista Ansar Al Sharia, che nega ogni responsabilità sull’attentato. Ma molti testimoni libici raccontano che membri del gruppo erano presenti in armi intorno al compound americano. A Bengasi questo gruppo ha una sua forte base.
L’inviato a New York de La Stampa riferisce di un briefing tra tre alti funzionari dell’Amministrazione Usa, che hanno tentato di ricostruire la dinamica degli avvenimenti di Bengasi. Si è trattato di una battaglia durata cinque ore e di un attacco slegato dalle manifestazioni contro il film su Maometto, organizzato e preparato in anticipo. I funzionari hanno anche detto che dovranno aspettare l’autopsia per chiarire le cause della morte dell’ambasciatore. Non sapevano nemmeno se durante l’aggressione ci fossero ancora proteste fuori dall’edificio, a conferma che i due eventi sarebbero slegati.
IL Foglio tenta di illustrare ai lettori la “kill list” di Obama in Libia, spiegando che la reazione Usa non sarà rapida, ma avrà una parte visibile, di deterrenza e minaccia, e una parte clandestina. Due incrociatori sono stati spostati al largo delle coste africane, e una forza di reazione rapida di 200 marines si sta occupando del rafforzamento della sicurezza per personale diplomatico americano. Le due navi da guerra hanno a disposizione missili Tomahawk, che possono colpire con precisione bersagli sulla terraferma. La parte clandestina è affidata al mezzo preferito dell’Ammnistrazione Usa, i droni. Il Pentagono ammette che le Cap, perlustrazioni con aerei senza pilota, non sono mai cessate sulla Libia. Lo stesso Gheddafi è mortoperché il suo convoglio in fuga da Sirte è stato bloccato da un drone. I ribelli lo raggiunsero e fecero il resto. Grazie ad un accordo con il governo di Tripoli, non hanno mai lasciato il Paese.
Anche sul Corriere della Sera e su La Repubblica si racconta di come i droni siano pronti a colpire i miliziani. “Ogni centimetro quadrato della LIbia è scandagliato dagli occhi elettronici dei “globalhawk” aerei senza pilota che partono dalla base militare di Sigonella.
Commenti
Robert Kaplan, capo degli analisti del centro di ricerca politica StratFor, intervistato da La Stampa, dice: “L’errore di Obama è stato immaginare che Tripoli potesse imporre l’ordine in Cirenaica. Neanche Gheddafi ci riuscì mai del tutto. La Libia come nazione non è mai esistita. Bengasi e la Cirenaica sono più legate all’Egitt che a Tripoli. Le rivolte antidittatori che scongelano il mondo arabo fanno tornare alla ribalta l’importanza strategica della geografia. Per stabilizzare Bengasi il Cairo conta più di Tripoli”. Quali opzioni ha l’amministrazione Usa per evitare che la primavera araba finisca in mano a gruppi jihadisti? “Deve affrontare le singole rivolte non come un unico fenomeno ma trattandoli da singoli eventi nazionali, ognuno dei quali ha caratteristiche proprie. Prendiamo lo Yemen, dove i jihadisti hanno assaltato l’ambasciata Usa. A sostenerli ci sono leader di tribù che si oppongono all’attuale presidente, essendo rimasti fedeli al predecessore”. “Bisogna tener conto delle realtà geopolitiche locali e non immaginare le rivolte come se fossero un monolite, sul modello di quelle avvenute in Europa dopo il crollo del muro di Berlino”. Che opinione si è fatto delle rivolte innescate dal film? E’ una combinazione tra mezzi di comunicazione e tipologia delle metropoli. Gli stessi nuovi media che contribuiscono a sostenere le rivolte contro i dittatori possono promuovere le jihad, ma l’impatto è sempre diverso: in una metropoli come il Cairo si muove una folla di disoccupati, giovani e gente comune, mentre in una città di milizie, come Bengasi, le manifestazioni sono guidate da truppe combattenti, assai bene armate.
Il Corriere della Sera offre due pagine di riflessione, di bilancio, ad un anno e mezzo dallo scoppio dei movimenti insurrezionali nei Paesi arabi. L’islamologo francese Olivier Roy sottolinea: “Gli assalti alle ambasciate americane, per quanto impressionanti, non segnano un cambiamento di fondo, un ritorno indietro della ‘piazza araba’. A Bengasi, ad attaccare il consolato non c’erano certo migliaia di persone, ma una squadra ben attrezzata di terroristi muniti di lanciarazzi. Anzi, molti cittadini libici hanno rischiato la vita, e alcuni l’hanno persa, per cercare di difendere il personale del consolato. Non è stata una manifestazione di piazza, è stato un attentato. E’ in corso una alleanza tra gruppi salafisti e jihadisti, ma in fondo non c’è niente di nuovo, è gente attiva da dieci anni che usa qualsiasi pretesto per lanciare azioni contro gli Usa. L’opinione pubblica araba non è cambiata rispetto alle speranze suscitate dai movimenti di democratizzazione in Tunisia, Egitto, Libia”.
Nella pagina di fianco, intervista allo storico e politologo Benjamin Barber, che non è mai stato ottimista sulla primavera araba: “Le forze che la stanno strumentalizzando non sono democratiche. A Bengasi si sventola la bandiera della monarchia, in Egitto sono al potere i Fratelli Musulmani, per ora moderati ma esposti a gruppi estremisti, in altri Paesi aumenta la nostalgia per l’uomo forte. E’ ora che l’America e l’Europa si mettano insieme e rivedano la loro politica verso l’islam, prendendo le distanze dalle dittature. La libertà e la democrazia nascono dal basso, e vanno alimentate anche dai Paesi islamici, non nascono dal rovesciamento dei tiranni”. “Noi americani – dice Barber – passiamo da un cieco sostegno alle dittature a un cieco sostegno delle rivoluzioni”. E sulla stessa pagina, “storie e dottrina dei salafiti”, di Roberto Tottoli: la diffusione dell’islam salafita “sta spingendo in una unica direzione realtà tra loro diverse, in nome di un Islam tradizionale che si vuole sempre uguale. E’ una visione che dimentica volutamente duttilità e diversità della storia musulmana”.
Ancora su La Repubblica, segnaliamo una inchiesta di Jason Burke, giornalista esperto di Medio Oriente, sotto il titolo: “Una rete sgretolata e senza leader. Così Al Qaeda ha perso il suo primato. A Bengasi l’opera di ‘cani sciolti’”. “Ma l’ideologia resta viva. Le organizzazioni regionali sfruttano situazioni contingenti per colpire letalmente”.
Renzi
L’Unità dà conto della partenza della sfida del sindaco di Firenze Matteo Renzi per le primarie: Renzi esplicita la notizia che vuol giocarsi la partita più grossa, quella per il governo del Paese, di cui le primarie sono solo il primo tempo. E non caso la voce si alza quando punta l’obiettivo sul centrodestra. Su quelli che hanno fatto vincere Berlusconi, elettori che si propone di “stanare” dalle loro delusioni: “Vogliamo venire a prendervi perché noi del Pd le prossime elezioni le vogliamo vincere”, dice Renzi. Secondo L’Unità “è più sfida di sistema che duello di partito la prospettiva che il sindaco di Firezne offre ai suoi sostenitori che riempiono la sala, tra cui il presidente dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia Del Rio. Sul capitolo “rottamazione”: i “padri” vanno ringraziato per quel che ci hanno lasciato, ovvero settant’anni di pace e benessere, ma vanno sostituiti. E va rottamata la subalternità culturale alla generazione del 68, che si dipinge come la ‘meglio gioventù’. Ma va anche rottamato quel pezzo di sinistra ritratto nella foto (“ancora più grigia di quella di Vasto”) dei promotori del referendum sull’articolo 18 (Vendola, Di Pietro, Ferrero) che “punta solo a partecipare, e quando per caso vince fa di tutto per suicidarsi”. Da Verona Renzi disgna un altro centrosinistra e un altro Pd: un Pd non più recinto ma “prateria”, che non ponga ostacoli anche a chi nel passato ha dato fiducia a Berlusconi e Lega: “Insomma, la vocazione maggioritaria di Veltroni”, chiosa L’Unità. Un Pd più americano che da socialismo europeo.
L’editoriale del quotidiano Europa, firmato dal direttore Menichini, evidenzia come il discorso di Renzi fosse pieno “di contenuti schiettamente liberal che sono già nel patrimonio politico e culturale del centrosinistra (non solo grazie al Lingotto di Veltroni)”. “L’insistenza sul merito e sulle opportunità, declinati come concetti ‘di sinistra’ è una sfida alla vulgata corrente nel Pd, per la quale la risposta progressista alla crisi economica e alle istanze sociali deve poggiare sulla rassicurazione e sulla protezione”. Secondo Menichini l’unica cosa davvero sbagliata Renzi l’ha detto quando si è lamentato che i primi titoli tralasciassero questi aspetti di contenuto ed enfatizzassero invece il suo appello agli elettori delusi da Berlusconi (Appello, ha spiegato, che riguarda le elezioni politiche, non le primarie): “Sbaglia a lamentarsi, Renzi”, perché se questa parte del discorso gli alienerà qualche voto di sinistra, è l’unica vera rupture rispetto agli ultimi anni di vita del Pd, poiché “è la promessa di una inversione di rotta rispetto all’atteggiamento rinunciatario di coltivare e contendersi solo i consensi della propria area tradizionale”. Con milioni di italiani politicamente allo sbando, incerti o attratti dal populismo di Grillo, quest’opera di ascolto e convincimento “non sarebbe solo una manovra di sfondamento elettorale nl campo avverso: sarebbe una missione schiettamente democratica, civile. Un dovere. Il compito che il Pd s’era assegnato al momento di nascere, cinque anni fa, guarda caso nei gazebo delle primarie”.
Il direttore de Il Giornale Salluisti nell’editoriale scrive dell’appello agli elettori Pdl (un partito che viaggia nei sondaggi attorno al 22 per cento ed è “saldamente in mano al suo leader storico”): “a saltare in aria è invece la sinistra”, perché “da ieri” il Pd “come lo conosciamo non esiste più”, poiché Renzi h adato il via ad una scissione senza ritorno con la sua “discesa in campo” contro Bersani e gli oligarchi. “Adesso ci sono quattro sinistre”: Bersani, Renzi, Vendola e Di Pietro, “incompatibili fra loro” e che dovranno spartirsi il solito elettorato. Ma il furbo Renzi “tenta il colpaccio di prendersi tutto il piatto” e, sapendo che è impossibile, si rivolge anche all’elettorato di centrodestra che, secondo i sondaggi, non lo trova antipatico. “Ovvio, il nemico (Renzi) del mio nemico (postcomunisti alla Bersani) non può che essermi simpatico. Ma da qui a farsi guidare da un ex democristiano salito sul carro di Prodi per infiltrarsi nel Pd e che dopo vent’anni di politica a tempo pieno dice di aver scoperto il Bengodi liberale il passo è ardito”. A Sallusti ricorda “quei sessantottiti che bruciarono i padroni salvo poi, a missione fallita, far le fusa a banchieri e padroni, pur continuando a disprezzarli”. “Tanto che ieri ha detto anche che, se non ce la farà a vincere, aiuterà Bersani a sconfiggere il centrodestra”.
Su La Stampa, un retroscena: “Lo strappo con i sessantottini fedeli elettori della sinistra”.
Monti, Fiat
Il Presidente del Consiglio, intervenendo ieri al congresso annuale della Società italiana di scienza politica dell’Università di Roma, ha detto: “Certe disposizioni dello Statuto dei lavoratori, ispirate dall’intento molto nobile di proteggere la parte più debole, hanno potuto contribuire a determinare insufficiente creazione di posti di lavoro”. Un intervento in videoconferenza che – spiega Repubblica – ha riaperto il dibattito sull’articolo 18, infiammando ancor di più la polemica sui referendum di Vendola e Di Pietro, dividendo la “strana maggioraza” e spaccando i sindacati. Visto l’effetto, in serata Palazzo Chigi ha spiegato che la frase di Monti è una autocitazione da un discorso del 1985. E dunque, “non c’era nessun intento polemico legato alla attualità politica”. La reazione della segretaria Camusso: “Penso che sia la dimostrazione che questo governo non ha idea di cosa fare per lo sviluppo e la crescita. Pare che il governo abbia esaurito qualunque spinta propulsiva”. Massimo D’Alema: “Frase palesemente sbagliata. Primo perché la riforma si è fatta, l’ha fatta lui perdipiù. Che polemica apre?”.
La Stampa evidenzia quanto queste parole rendano ancora più difficile la trattativa sulla produttività: un errore di quelli destinati a segnare in negativo i rapporti tra esecutivo e Cgil. Il sindacato, su temi delicati come questi, deve sempre vedersela con la Fiom e dunque attaccare un totem come lo Statuto non l’aiuta di certo. Non aiuta neanche il Pd che, dopo la vicenda del referendum sull’articolo 18, ha i suoi problemi con una bella fetta dei suoi potenziali alleati.
L’Unità dedica alla questione le pagine 2 e 3, anche perché in contemporanea è arrivato un comunicato dell’Ad della Fiat Marchionne, che il quotidiano riassume così: “Fabbrica Italia non è un impegno, non c’è più”. Fiat sarebbe pronta a chiudere uno o più stabilimenti in Italia. L’azienda ha ribadito che fin dal 27 ottobre 2011 aveva comunicato che il “piano Fabbrica Italia” era stato messo in soffitta (“non avrebbe più utilizzato la dizione”) perché non era un “impegno”. Il 30 ottobre è previsto l’annuncio ufficiale. Nel comunicato si ricorda che Fiat con Chrysler è oggi una multinazionale ed ha “il diritto e il dovere di compiere scelte industriali in modo razionale e in piena autonomia”.
“Ma saremo responsabili”, aggiunge il comunicato, come evidenziato da Repubblica.
Da Sole 24 Ore altri stralci dal comunicato: “Da quando Fabbrica Italia è stata annunciata dall’aprile 2010 le cose sono profondamente cambiate. Il mercato dell’auto in Europa è entrato in una grave crisi e quello italiano è crollato ai livelli degli anni 70″.
di Ada Pagliarulo e Paolo Martini