Sarà perché amo il Mediterraneo e su queste sponde sono nata, sarà perché sono donna, sarà perché amo i suoi frutti ma se c’è una pianta che parla al mio cuore, quella è il fico. Mi piace perché è una pianta materna, basta guardarla mentre allarga le sue braccia, cercando di raccogliere il mondo intorno a sé, per capire che è femmina. Quest’albero, infatti, è sempre stato associato alle Dee madri e all’abbondanza. Molto probabilmente a causa dei suoi frutti che ricordano un seno turgido. E come non bastasse, quei seni producono anche un particolare liquido bianco chiamato appunto ‘latte’.
Io poi sono nata a Roma e la mia città con il fico ha un rapporto molto speciale, la leggenda vuole infatti che i gemelli Romolo e Remo, figli illegittimi di Marte, furono trovati e allattati dalla Lupa proprio sotto un fico selvatico.
Il fico sotto il quale i gemelli sostarono, fu chiamato ruminale e fu oggetto di venerazione per diversi secoli. Vive ancora. Un tempo si trovava presso la grotta Luperca, sulle sponde del Tevere. Non solo, nel Foro romano era sempre presente un albero di fico perché considerato di buon auspicio e ogni volta che l’albero moriva se ne piantava un altro.
Chiunque viaggi lungo le coste del Mediterraneo lo sa, insieme ai pini marittimi, alla macchia profumata, a olivi e fichi d’india, il fico non manca mai. Molti anni fa la mia famiglia aveva comprato una casa a Stromboli, allora un’isola ancora selvaggia e non toccata dal turismo. La casa aveva in dotazione due alberi, uno di gelsi e uno di fichi. In quella casa abbiamo trascorso la nostra giovinezza, tanti fratelli, tanti amici. Erano anni molto più semplici, si dormiva spesso all’aperto e i soldi per il cibo scarseggiavano sempre, ci si limitava a grandi pastasciutte e scorpacciate di fichi e more. Dovevamo contendere i fichi, però, a una lunga biscia che ne andava ghiotta, che viveva praticamente tra i rami dell’albero. Anche lei una habitueè delle nostre estati, tanto che l’avevamo chiamata Clementina.
Ma fichi ne ho trovati in tutti i mercati che ho incontrato nei miei viaggi, in Grecia, in Turchia, in Marocco. Strano a dirsi, però, i più commoventi li ho trovati in America. Un anno girai per il Gambero Rosso Channel, dove lavoravo come autore, un documentario che raccontava come il cibo fosse stato uno strumento identitario nelle comunità italo-americane. Girai gli Stati Uniti in lungo e largo, e ricordo con molta emozione la visita a casa del proprietario di un emporio di cibi italiani nel Bronx, a New York. La casa dove viveva aveva un fazzoletto di terra nel quale Bob coltivava con ostinazione zucchine, insalate e pomodori, ma il suo orgoglio era l’albero di fico che cresceva stento e macilento. Era, la sua, una guerra personale, il Bronx non è il Mediterraneo e il clima in inverno è gelido. Ma Bob non si arrendeva e ogni anno copriva la pianta con teli e coperte, nei giorni particolarmente freddi aggiungeva, tra i rami, borse dell’acqua calda. “Fa fichi piccolissimi, praticamente immangiabili- mi raccontò- ma per me è l’albero più bello del mondo, d’estate mi ci siedo sotto e immagino di essere in Basilicata, a casa”.
Mi venne da piangere, il Paese di Bob era tutto lì, racchiuso tra i rami stenti di quell’albero. “Solo un’estate il mio fico è maturato come doveva, aveva fatto particolarmente caldo e i frutti vennero fuori grossi e dolcissimi, proprio come da noi! Me li sono mangiati tutti, li ho fatti come li preparava mia mamma, in bruschetta”.
Tornata in Italia mi sono precipitata a fare anche io una bruschetta di fichi. Semplice e buonissima. Basta avere del buon pane casareccio, con la crosta dura, farlo tostare, sbucciare i fichi, tagliarli in due, metterli sul pane, condire con olio, sale, pepe e una foglia di menta. Per veri gourmet! E mangiandola non dimentico mai di fare un brindisi a Bob, alla sua terra lontana e al suo amato albero di fichi.