La prima volta, ormai lontana nel tempo, in cui sono andata a Budapest, ci sono arrivata via acqua. Come è possibile, vi chiederete? Ero a Vienna e decisi, con un po’ di amici, di arrivare nella capitale ungherese risalendo il Danubio, con un aliscafo che in poco più di 4 ore ti porta a destinazione. Un viaggio lento tra aironi e cicogne. Tutto questo accadeva prima della caduta del Muro e dunque la città era ancora parte del blocco comunista. Avevamo prenotato un albergo proprio sul fiume, bruttissimo all’esterno, in puro stile sovietico, ma con stanze enormi che si affacciavano sul Danubio e una vista spettacolare sulla città. Ricordo anche che, sembrerà strano, la città la trovai allegrissima, forse perché la paragonavo a Praga dove ero stata pochi mesi prima e che mi era sembrata di una bellezza struggente e di una malinconia straziante. A Praga, ad esempio, non riuscivamo a trovare nulla da mangiare, la scelta si limitava infatti a patate e uova a parte.
Budapest invece ci offriva quella che ci sembrò allora una cucina ricca e tentatrice, foie gras come se piovesse, ottimo e a prezzi contenuti, ricordo delle indimenticabili tartine che divoravo con entusiamo da Gerbeaud, la pasticceria più famosa d’Ungheria, forse la più antica e ricca di tradizioni d’Europa, rilucente di marmi, bronzi, specchi, legni pregiati e stucchi in stile rococò.
Ricordo anche il sapore speziato del goulasch, le palacinke profumate, crepes sottili ripiene di marmellata o salsa al cioccolato e insaporite da semi di papavero. E poi la palinka, il liquore nazionale ungherese, un distillato di frutta dall’aroma di albicocca e di fragola. Insomma ero entusiasta di Budapest malgrado i mercati fossero di povertà e miseria funerea e le mura delle case portassero ancora i segni delle pallottole dell’insurrezione del ’56.
Circa due anni fa a Budapest ci sono tornata, ospite da parenti che si sono trasferiti a viverci. E la città mi ha fatto tutt’altra impressione. So che può sembrare bislacco ma la città che sotto il comunismo mi era sembrata singolarmente allegra, adesso mi appariva tristissima. Certo i segni delle pallottole non ci sono più, i mercanti sono ricchi e colorati, la gente sicuramente gode di maggiore libertà, la città è pulita come uno specchio e la metropolitana funziona meglio che a Parigi. Ma è anche una città di gente incupita, scontenta, chiusa, senza curiosità, ripiegata su sé stessa. Una città con un numero esorbitante di fast food, negozi e catene americane, mai ne ho visti in tali quantità fuori dall’America. Una città di soli bianchi, anzi di soli ungheresi, turisti a parte. Insomma una città che ha abbracciato l’Occidente senza un minimo di equilibrio, passando da un eccesso all’altro. Una città in cui i negozi storici chiudono a velocità impressionante, in cui le merci restano comunque povere e tristi, vagamente sovietiche, e in cui la gente sorride poco. A resistere sono le terme. Budapest ha le terme più belle d’Europa, ai bagni Gellèrt, ai bagni Széchenyi, alle terme di Lukacs si riesce ancora a respirare un’aria internazionale e a sognare di una Budapest di altri tempi. Ci ho passato giornate intere in quei bagni, forse per dimenticare l’insostenibile tristezza del resto della città. Che peraltro è comunque molto bella, non fraintendetemi, forse sono io ad averla vissuta così. Il fatto è che anche il cibo che mi aveva così entusiasmato, si è appiattito, rispondendo ai gusti di un pubblico di massa. Insomma nemmeno le palacinke sono più quelle di una volta, cariche di qualsiasi ingrediente, dalle banane alle noci, dai kiwi alla nutella. Per consolarmi ogni tanto a casa preparo un patè con i fegatini di pollo che faccio rosolare nell’olio con scalogno, alloro, pepe e sale, aggiungo a sfumare marsala secco, poi passo tutto nel mixer con mezzo bicchiere di sherry e un tocco di burro. Metto in frigo e lo mangio spalmato su tartine tostate. Sognando la Budapest che fu.