sceneggiatura Gianno Romoli, Velia Santella, Ferzan Ozpetek cast Halit Ergenc (Orhan Sahin) Tuba Buyukustun (Neval) Nejat Isler (Deniz Soysal) Mehmet Gunsur (Yusuf) Cigdem Onat (Sureyya Soysal) Serra Yilmaz (Sibel) Zerrin Tekindor (Aylin) genere drammatico durata 115′
Alla lunghissima serie di autori che hanno fatto di Istanbul una delle città più affascinanti e “letterarie” del mondo, si aggiunge, buon ultimo, anche il regista italo-turco Ferzan Ozpetek con questo film tratto da un suo romanzo (edito da Mondadori). Sull’Ozpetek scrittore non ci esprimiamo, ma la sua capacità di creare suggestioni con la macchina da presa non è in forse anche se ultimamente (Allacciate le cinture) avevamo notato una pericolosa tendenza ad assimilare i vizi peggiori dell’Italian Way of the Cinema.
Il ritorno in patria ha sicuramente giovato, come la magia dell’antica capitale dei tre imperi. La storia narrata è un piccolo pretesto per scendere nelle profondità dell’animo umano, in parallelo con gli angiporti di Istanbul, dai quartieri storici di Pera ai grattacieli di Levent, dalle antiche yali (case signorili) affacciate sul Bosforo ai ponti sospesi che lo attraversano.
Nell’effettuare questa operazione-nostalgia Ozpetek si è scelto un nume tutelare nella persona e nell’opera del suo connazionale più celebre in campo culturale: lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk. A partire dal nome del protagonista del film che, guarda caso, si chiama Orhan e, guarda ancora caso, fa lo scrittore.
Lo stesso titolo è una sorta di omaggio a Pamuk e al suo Il mio nome è rosso, romanzo storico ambientato nella Istanbul ottomana del ‘500. La stanza di Deniz all’interno della yali di famiglia dove Orhan si installa dopo la misteriosa scomparsa del suo amico fa invece riferimento a un’altra “invenzione” di Pamuk: il Museo dell’Innocenza. Infine, ad aleggiare dalla prima inquadratura all’ultima, sono lo spirito e le atmosfere di Istanbul, il romanzo-saggio autobiografico, capolavoro dello scrittore. Tutto ciò per dire che al cinema è permesso arraffare dove meglio si crede purché il risultato sia efficace.
E la rossa Istanbul di Ozpetek funziona. Funzionano i suoi personaggi alla ricerca di un amore impossibile, incapaci di sfuggire a un tragico destino già scritto o forse, proprio per questo, volutamente propensi ad assecondarlo. Il risultato è un film crepuscolare e inquieto, fatto di emozioni più che di azioni, capace di guardarsi dentro e indurre lo spettatore a fare altrettanto. Fatto non irrilevante con quel passa il convento cinematografico.
Piccolo neo, non da poco visto che le interpretazioni sono determinanti in un film di questo genere, il cast, strombazzato come il gotha dell’attorialità turca. Accettabile il comparto femminile, con Tuba Buyukustun nella parte dell’impossibile oggetto del desiderio e Cigdem Onat in quella della matriarca di casa Soysal, con relativo codazzo di parenti e serventi. Fino all’attrice-feticcio Serra Yilmaz, anche qui nei panni abituali della Tina Pica ottomana ossia della domestica ficcanaso e linguacciuta, ma in fondo buona e simpatica.
Deboluccio invece il fronte maschile con Halit Ergenc per il quale si potrebbe riesumare la celebre definizione del Clint Eastwood da spaghetti-western: “In tutto il film mostra due sole espressioni: con il cappello e senza”. Con questa differenza, che Ergenc non porta mai il cappello. Eccessivo e a volte decisamente stucchevole Mehmet Gunsur nel ruolo di Yusuf, il nevrotico personaggio che dovrebbe rappresentare la chiave interpretativa del film: l’amore giovanile di Deniz destinato a svanire in un rosso e infuocato tramonto sul Bosforo.