regia e sceneggiatura Alejandro González Iñárritu cast Leonardo DiCaprio (Hugh Glass) Tom Hardy (John Fitzgerald) Domhnall Gleeson (Andrew Henry) Will Poulter (Jim Bridger) Forrest Goodlook (Hawk) Paul Anderson (Anderson) Lucas Haas (Jones) Grace Dove (Powaqa) Arthur Redcloud (Hikuc) Duane Howard (Elk Dog) genere avventura durata 155′
Tutti i grey panthers ricorderanno certamente il pupazzo Ercolino Sempreinpiedi della Galbani e il simpatico Paolo Panelli, testimonial della casa nel Carosello degli anni ’60. Lo diciamo perché al pubblico dei teenager non può certo venire in mente l’associazione tra Ercolino e Hugh Glass, il personaggio interpretato da DiCaprio in Revenant, che sorge invece spontanea a qualunque senior. Il protagonista, infatti, sopravvive, nell’ordine, all’assalto di un grizzly, alle cascate di un fiume, a un volo di decine di metri da un dirupo più un numero imprecisato di agguati e sparatorie assortiti. Il tutto alle temperature polari del Grande Nord Americano nella sua veste invernale. Le prove più dure, per giunta, mentre è convalescente, ossia più di là che di qua. Un videogame, insomma, non un uomo in carne e ossa. Ma veniamo al punto vero della questione: la verosimiglianza della pagina scritta e dell’immagine cinematografica. In un romanzo o persino in una biografia si può scrivere “sopravvisse all’attacco di un orso” oppure “attraversò a nuoto le rapide del fiume” senza cadere nel ridicolo e arrivando persino alle corde dell’epica. Ben diverso mostrare una sagoma umana che si tuffa in un burrone, sparisce tra le fronde di un abete per ritrovarsi incolume ai piedi dell’albero spolverandosi il nevischio come fosse appena sceso da una funivia. Senza parlare dei pistoloni ad avancarica in dotazione al personaggio che alla bisogna (un assalto degli indiani) si mettono a sparare a raffica.
Hugh Glass è un personaggio realmente esistito, attivo come trapper (esploratore e guida) nell’alto Missouri all’inizio del XIX secolo. Era l’epoca in cui i “bianchi” invadevano i territori dei nativi americani per procacciarsi le pellicce di castoro, ricercatissime sui mercati europei. Una delle tante pagine nere della colonizzazione portata di recente alla luce attraverso la biografia romanzata di Glass scritta da Michael Punke, un economista con l’hobby della Frontiera. Logica e buon senso avrebbero voluto che per accostarsi alla materia e trasformarla in immagini da grande schermo, si fosse proceduto interpretando lo spirito dei tempi passati per calarlo nei nostri. Esattamente come fece nel 1972 Sydney Pollack con Corvo rosso non avrai il mio scalpo, sceneggiato da John Milius e interpretato da un Robert Redford in stato di grazia. Film giustamente ricordato come uno dei primi che ribaltò la tradizionale visione del confronto (soprattutto culturale) tra coloni e nativi. Ma siccome Iñárritu non è Pollack, tutto ciò che riesce a fare è pigiare a tavoletta il pedale dell’enfasi. Non solo nelle imprese di Glass-Sempreinpiedi, ma anche nelle scelte stilistiche come l’uso spasmodico del grandangolare utilizzato nel 90% delle scene. Sinceramente fastidioso a dispetto degli scenari naturali che vorrebbe esaltare. Idem per la musica, insistente e ripetitiva, in ogni caso incongruente con il film a dispetto della fama del compositore, Ryuichi Sakamoto. Quanto agli attori, DiCaprio si stramerita quell’Oscar finora mancato, se non altro per aver sempre mantenuto un’espressione seria dopo ogni capitombolo cui lo obbliga la sceneggiatura. Un po’ pochino per un film destinato a scalare le vette del box office e fare incetta di premi. D’altra parte non potrebbe essere diversamente per un film destinato ai ruminanti che entrano in sala con quintali di popcorn e non a chi cerca nutrimenti per l’anima.