La mostra “Savinio-Incanto e mito” a Palazzo Altemps di Roma (fino al 13 giugno) ripropone l’opera pittorica di questo importante autore del ‘900 mettendo a confronto la sua idea di classicità con le collezioni antiche del Museo Nazionale Romano, presenti nello stesso luogo. E un volume a cura di Ester Coen fa il punto sulla molteplice attività (pittorica, letteraria, teatrale, musicale…) di un autore che sfugge a ogni definizione.
Il critico letterario Walter Pedullà lo considera “figura esemplare delle avanguardie storiche europee, pittore fra i più inventivi del secolo, narratore di sorprendente e affascinante fantasia, prosatore di instancabile vitalità linguistica, drammaturgo di travolgente impatto culturale, pensatore geniale e profetico, critico audace e puntuale, intellettuale coraggioso e lungimirante, protagonista dell’arte e della letteratura del Novecento” e, proprio per questo, lo definisce, etimologicamente, “scrittore ipocrita e privo di scopo”. Sempre meglio del “Surrealismo borghese! che gli attribuì Gianfranco Contini che lo escluse dalla sua fondamentale “Letteratura dell’Italia unita” (Rizzoli). Per fortuna, a rimettere a posto le carte aveva già provveduto, nel 1939, André Breton, fondatore e “gran sacerdote” del surrealismo, includendolo, unico italiano, nella sua “Antologia dello humour nero” (Einaudi). In effetti se c’è un autore italiano del ‘900 sfuggente a ogni definizione, a ogni tentativo di “inscatolamento” è proprio Andrea Francesco Alberto De Chirico, meglio noto come Alberto Savinio. Sì, si tratta proprio del fratello minore del pictor optimus Giorgio, che negli anni ’10 a Parigi cambiò il proprio cognome per evitare che venisse pronunciato, alla francese, Sciricò. E anche per distinguersi dall’ingombrante figura dell’inventore della pittura metafisica. Lui che alla pittura arriva “tardi”, nel 1926, a 35 anni, dopo essere stato apprezzato come musicista d’avanguardia e scrittore ancor più sperimentale negli anni ’10.
Un percorso artistico, quello di Savinio, che lo porta a frequentare un bel numero di muse, al contrario del fratello che si dedicò esclusivamente alla pittura salvo qualche breve (nonché apprezzabile) scorribanda letteraria. Inclusa la decima, ossia la musa del cinema, ultima nata del corteggio di Apollo, figlie di Zeus e Mnemosine (la Memoria). E proprio l’arte di Savinio, che si estrinsechi sul pentagramma, sulla pagina, sulla tela o sulle tavole del palcoscenico, è quanto mai “figlia della memoria”. Memoria personale e individuale dell’autore (si vedano i suoi costanti riferimenti alla propria infanzia), ma anche memoria del mondo e della civiltà con particolare riferimento proprio al mito greco. Lui «nato all’ombra del Partenone sotto lo sguardo vigile di una palladica civetta», l’uccello sacro ad Atena, dea a sua volta delle arti. Ed ecco che la mostra di Palazzo Altemps, sede del Museo Nazionale Romano, rispetto alle numerose altre analoghe tenute nel corso dei decenni tra cui, importantissime, le due a Palazzo Reale di Milano (1976 e 2011) si caratterizza proprio per questo. Qui mito individuale e mito classico si fondono in un tutt’uno inseparabile dal dialogo creato “ad arte” tra i quadri di Savinio e le statue dell’antichità presenti nel Museo. Non una corrispondenza pedissequa, ma, ben di più, una rievocazione, una “memoria” appunto che attraversa secoli e storie per trasformarsi in una moderna “mitologia in atto” che sarebbe molto piaciuta al nostro autore.
A corredo della mostra, la casa editrice Electa pubblica il volume a cura di Ester Coen Savinio A-Z, sorta di “nuova enciclopedia” saviniana in 107 lemmi in cui 31 autori, tra cui il figlio Ruggero, che unisce fondamentali orientamenti critici a non poche e inedite memorie familiari, ripercorrono l’opera di Savinio nella sua completa e complicata parabola che attraversa quasi tutte le arti, dalla letteratura al cinema passando per la musica, la pittura, il teatro, l’arte decorativa e la critica (letteraria, teatrale , musicale e cinematografica). A riprova della complessità del suo contributo alle avanguardie novecentesca e della sua straordinaria attualità, capace di arrivare anche ai millenials nati mezzo secolo dopo la sua scomparsa.
Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto De Chirico (Atene, 25 agosto 1891-Roma 5 maggio 1952). Figlio di un ingegnere ferroviario attivo in Grecia nella costruzione di strade ferrate, alla morte del padre, nel 1905, si trasferisce con la madre Gemma Cervetto e il fratello maggiore Giorgio (n. a Volos nel 1888) dapprima a Monaco di Baviera quindi a Parigi dove entra in contatto con i circoli artistici d’avanguardia facenti capo al poeta Guillaume Apollinaire e ai pittori Derain e Picasso. Qui esordisce come musicista e scrittore. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale rientra in Italia e viene mandato sul Fronte Orientale come interprete. Finite le ostilità, rientra a Milano e a Firenze per poi spostarsi di nuovo a Parigi, tra il 1926 e il 1933, dove inizia a dipingere. Tornato definitivamente in Italia, a Roma, continua l’attività di scrittore e pittore dedicandosi fino alla sua morte improvvisa, a soli 61 anni, anche al teatro e alla critica (teatrale, musicale e cinematografica) per vari giornali e riviste.
Nel libro Al cinema con Savinio-L’utopia e la penombra (Métis, 1992) Auro Bernardi ha analizzato i riferimenti cinematografici presenti nell’insieme dell’opera letteraria saviniana.
“Savinio-Incanto e mito” – fino al 13 giugno
Palazzo Altemps, Roma
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