tit. orig. J’accuse sceneggiatura Roman Polanski e Robert Harris dal suo romanzo omonimo (ed. Mondadori) cast Jean Dujardin (Georges Marie Picquart) Louis Garrel (Alfred Dreyfuss) Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier) Grégory Gadebois (Joseph Henry) Hervé Pierre (Charles-Arthur Gonse) Didier Sandre (Raoul De Boisdeffre) Wladimis Yordanoff (Auguste Mercier) Vincent Grass (Jean-Baptiste Billot) Luca Barbareschi (M. Monnier) genere drammatico prod Fr, Ita 2019 durata 126 min.
Ecco un bel film storico di assoluta attualità. L’affare Dreyfus o, come recita il titolo originale, l’assordante J’accuse lanciato dallo scrittore Émile Zola, come metafora dei tempi attuali tra paura del diverso, antisemitismo (o anti-qualsiasi cosa), nazionalismo (sovranismo), sciovinismo e fake news. E pazienza se si manda all’Isola del Diavolo (o all’Ospedale Pertini) un innocente (o un ragazzo pestato in caserma). Coperture e depistaggi, macchina del fango e ragion di stato. Insomma: siamo sul pezzo anche se sono passati più di cent’anni. In tutto ciò Polanski ha il merito di raccontare, come avverte una didascalia all’inizio del film, fatti assolutamente veri e di scegliere, grazie al romanzo di Harris, il punto di vista non del militare ebreo ingiustamente degradato e condannato come spia, ma quello dell’ufficiale che più di ogni altro si adoperò perché fosse fatta luce sui fatti ed emergesse la verità. Per puro senso del dovere, per onestà intellettuale verso se stesso e l’istituzione di appartenenza (l’Esercito). Qualità sempre più rare, non solo nella Terza Repubblica Francese.
Tanto che l’affaire di per sé resta sostanzialmente di sfondo. Dato per scontato, acquisito agli atti. Sappiamo tutti come è andata a finire e sappiamo pure che il tanto vituperato Dreyfus a fine carriera si prese pure la Legion d’Onore. Ma non è questo il punto del film che avrebbe potuto intitolarsi La versione di Picquart: è proprio il processo morale, seguito da ben tre processi giudiziari, che mette un uomo di fronte alla propria coscienza. Di fronte a un aut-aut: obbedire e seppellire così la propria dignità oppure trasgredire e far emergere il sopruso? Il tutto raccontato in maniera superba grazie anche alle cupe atmosfere conferite dalla fotografia di Pawel Edelman, dalla scenografia (Jean Rabasse) e dai costumi (Pascaline Chavanne) impeccabili. A cui si aggiunge un cast perfetto con una sorpresa assoluta: un Dujardin in stato di grazia in una delle sue migliori interpretazioni. Va infine detto che Polanski (classe 1933) nella terza età avanzata sta dando le migliori prove come autore a fronte invece di una certa discontinuità nel passato. Film come questo, ma anche il precedente Quello che non so di lei (2017) sono opere mature, personali e di notevole spessore artistico. Che dovrebbero fare scuola. Da ultima, una piccola chiosa su un argomento di cui abbiamo dibattuto a lungo, anche in questo sito: il doppiaggio. In un incontro con la stampa un giornalista ha chiesto a Polanski: “È vero che ci sono state battute d’arresto prima di girare il film per la scelta della lingua, in quanto i produttori volevano che il film fosse in inglese?” Risposta: “Sì, in effetti pensavano che fosse fondamentale che il film fosse in inglese per ottenere finanziamenti, specialmente dai distributori americani. Inoltre sarebbe stato più facile venderlo sui mercati internazionali, ma io non riuscivo proprio a immaginare tutti quei militari francesi parlare in inglese. Il pubblico attuale è molto più evoluto e ama vedere i film e le serie tv in originale con i sottotitoli”. Già, appunto: perché mai noi siamo invece costretti a sentire tutti quei militari francesi parlare in italiano? Non siamo ancora abbastanza evoluti?
E allora perché vederlo?
Perché la storia insegna sempre qualcosa.