Una parentesi nel tempo, una spanna di terra, una mezzaluna di colline e campagne solcata dalle acque generose del Piave e del Sile, ricompresa tra Asolo a est e Oderzo a ovest, nei primi cinquant’anni del Cinquecento è stata grembo fecondo per una cultura di contaminazione e mutamento. Una storia di arte e pensiero raccontata da «Un Cinquecento inquieto. Da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo». La mostra, aperta dall’1 marzo fino al 8 giugno a Palazzo Sarcinelli di Conegliano,curata da Giandomenico Romanelli e Giorgio Fossaluzza e promossa dalla Città di Conegliano e Civita Tre Venezie, con la partecipazione della Regione del Veneto, narra con ampia testimonianza di opere, documenti, oggetti di culto, incunaboli, quella storia così poco nota e così ricca che caratterizzò la vita culturale e artistica del territorio coneglianese nella prima metà del XVI secolo. La data di partenza del percorso espositivo è il 1517, cioè la scomparsa di Cima da Conegliano – di lui in mostra il magnifico trittico di Navolè di Gorgo al Monticano – la data di arrivo è il 1568, anno della morte di Riccardo Perucolo, pittore e frescante – suoi affreschi sono nello stesso Palazzo Sarcinelli – bruciato sul rogo nella piazza dei mercati di Conegliano, per eresia, pittore al quale Romanelli ha dedicato il romanzo Il pittore prigioniero ora edito da Marsilio.
La piccola città del «Colle di Giano», mai giunta veramente alla dignità di civitas, mostra in quel periodo la brillantezza di un centro di interessi economici e di scambi – sul tracciato verso il nord, allo sbocco della vallata che si chiude con Ceneda e appena più a settentrione Serravalle – che la resero luogo di riferimento per l’intellighenzia del tempo. La traccia della corte dorata di Caterina Cornaro a Asolo si allunga fino alle colline sopra il Piave, dove, nel castello di Susegana i Collalto intrattengono usi di mondo raffinatissimi, da veri mecenati. Ospiti residenziali o di passaggio, alimentano quell’atmosfera di rinnovamento e di mutamento personalità della statura di Pietro Bembo e Giovanni della Casa, che prese residenza – dopo l’incarico veneziano di nunzio apostolico per Papa Paolo III alle prese con il rinnovamento del tribunale dell’Inquisizione – nell’abbazia di Nervesa, e il trait d’union tra i due ecclesiastici l’affascinante Elisabetta Querini (committente con il marito Lorenzo Massolo della strepitosa, estrema pala di Tiziano del Martirio di San Lorenzo per la chiesa del Cruciferi a Venezia).
Di Ceneda era Marcantonio Flaminio, umanista di rara sensibilità nella difficile mediazione tra riforma e tradizione, così come Alessandro Cittolini di Serravalle, umanista proteso alle ragioni dell’intelletto, indotto a fuggire all’estero perché in odore di eresia e morto a Londra. Tensioni non omologate con l’ortodossia cattolica, inquietudini illuminate da una luce che veniva dal nord, dal fuoco sempre più vivace delle chiese riformate; giochi di potere che coinvolgevano interessi ben al di sopra della religione.
Di un tessuto complesso, innervato di innovazione e tradizione, di entusiasmi e timori, la mostra al Sarcinelli raccoglie molto e molto addita, essendo il patrimonio artistico dell’inquieto cinquecento disseminato in pievi e palazzi della «mezzaluna inquieta»; ciò che si ammira nell’esposizione è richiamato da percorsi necessari e sorprendenti che si snodano nel vicino territorio. Così a pochi metri dalla sede espositiva, la Scuola dei Battuti con gli affreschi di Francesco da Milano annunciati in mostra da una splendida sala dedicata alle xilografie di Dürer, fonte della iconografia del da Milano, di cui è esposto anche un magnifico trittico provenente da Caneva di Sacile.
Accanto a eccellenze assolute come Palma il Vecchio con la grande pala di San Pietro dalle Gallerie dell’Accademia o la pala Paris Bordon da Santa Maria Assunta di Valdobbiadene o il ritratto di Sperone Speroni di Tiziano dal Museo di Treviso, scopriamo preziose perle, come la natività di Capriolo o l’innovativo, sconvolgente Cristo morto di Sebastiano Florigerio, oppure il San Marco e Santi Leonardo e Caterina del Beccaruzzi, del quale andremo a vedere poco lontano gli affreschi in facciata a Casa Sbarra, o alla chiesa della Madonna della Neve. Colto, stimolante e fitto l’intreccio tematico dell’esposizione e delle sue diramazioni esterne che ci portano a scoprire ciò che abbiamo sotto gli occhi, parte cioè di quel giacimento d’arte e civiltà inestimabili, frutto di travagliato pensiero e maestria, che ci è stato affidato da un passato di cui sembra siamo scarsamente consci e, forse, degni.
Fonte: Corriere del Veneto