Le storie avvincenti di Cornell Woolrich, con atmosfere cupe e tristi, piene di suspence e dallo stile asciutto e semplice, hanno contrubuito al genere noir
È un’infanzia non felice quella di Cornell Woolrich nato a New York il 4 dicembre 1903, che a causa della separazione dei suoi genitori è costretto a vivere tra la Grande Mela e il Messico, dove abita il padre. A diciotto anni si stabilisce definitivamente a New York per iscriversi alla Columbia University, attratto dalla narrativa e dalla voglia di scrivere. La sua carriera letteraria inizia a Hollywood come soggettista e sceneggiatore specializzato nella riduzione di romanzi per il grande schermo. Poi ritorna ancora a New York e si occupa di pubblicazioni periodiche, prima di passare nell’editoria di più alto livello. Omosessuale tormentato e profondamente legato alla madre, Cornell scrive i suoi primi romanzi e racconti che sono caratterizzati da un senso di angoscia e di paura. Le sue storie avvincenti, dalle atmosfere cupe e tristi, piene di suspence e dallo stile asciutto e semplice, di fatto contribuiscono a inventare il genere noir, che prende nome dalla traduzione francese dei libri della serie in nero editi in Francia da Gaston Gallimard negli anni Quaranta.
I libri noir
Lo scrittore newyorkese sceglie di andare a vivere e lavorare in una camera dell’Hotel Sheraton Russel di Park Avenue, ma la sua esistenza non è serena. Condizionato da una mamma molto ingombrante, dedito all’alcool e tormentato dalla sua omosessualità, Woolrich diventa il più affascinante e brillante autore del noir. Dal 1926 al 1933 sforna molti testi quali “Cover Charge”, “Children of the Ritz”, “Times Square”, “Manhattan Love Song” e nel 1940 dà alle stampe “La sposa era in nero“, nel ’41 “Sipario nero”, nel ’42 “L’alibi di ferro” e poi ancora “L’angelo nero”, “L’incubo nero”, “Appuntamenti in nero” del 1948, che sarà pubblicato nel 1950 anche in Italia dalla Mondadori.
Con lo pseudonimo di William Irish pubblica ancora dal 1942 al 1951 “La donna fantasma”, “Si parte alle sei”, “Vertigine senza fine”, “Ho sposato un’ombra”, “Dinastia dei morti”. Seguono molti altri racconti e un’intensa attività pubblicistica che il romanziere riesce a portare a termine nonostante la salute precaria, la solitudine e il vizio per la bottiglia. Dopo la morte della madre nel 1957, la sua salute peggiora notevolmente a causa del diabete di cui soffre. Il 25 settembre 1968 muore quasi dimenticato a New York a sessantaquattro anni.
Il cinema alla caccia della sua produzione letteraria
Il cinema dalla fine degli anni Venti saccheggia sistematicamente la sua produzione letteraria. Decine e decine sono i film tratti dai suoi romanzi o incentrati su suoi soggetti e sceneggiature. Negli anni Quaranta escono sugli schermi “Situazione pericolosa” di Bruce H. Humberstone, “La donna fantasma” di Robert Siodmak, “L’angelo nero” di Roy William Neill, “L’uomo leopardo” di Jacques Tourneur, “The Mask of the whistler” di William Castle. Hollywood sembra non poter fare a meno della sua prosa che si presta ad essere trasformata facilmente in copioni cinematografici.
Alfred Hitchcock
Nel 1954 il grande Alfred Hitchcock è colpito dalla novella intitolata “Real Window” scritta nel 1942 e pubblicata nella raccolta “After-Dinner Story” del 1944. Nasce così “La finestra sul cortile”, un classico del cinema noir e uno dei capolavori assoluti del mago del brivido. Protagonista della vicenda è il fotoreporter L.B. Jeffires detto Jeff (James Steward), immobilizzato su di una sedia a rotelle a causa di una frattura alla gamba, che per ingannare il tempo spia dalla finestra con un binocolo e un potente teleobiettivo il comportamento dei vicini.
Nella celebre intervista “Il cinema secondo Hitchcock” realizzata dal regista francese François Truffaut nel 1955 al collega inglese, Hitch afferma di essere stato attratto dalla trama del libro cui è ispirato il film: “Si trattava di un invalido che stava sempre nella stessa stanza. Credo di ricordarmi che un infermiere si occupava di lui, ma non costantemente. La storia raccontava tutto quello che il protagonista vedeva dalla finestra, come fosse arrivato a sospettare un omicidio e, verso la fine, la minaccia dell’assassino che si concretizzava. Stando a ciò che ricordo, la conclusione del racconto era che l’assassino sentendosi smascherato, voleva uccidere il protagonista dall’altro lato del cortile, con una pistola: il protagonista riusciva a tenere con le braccia tese un busto di Beethoven e lo esponeva davanti alla finestra, in modo che dall’esterno se ne vedesse la sagoma. Era quindi Beethoven che riceveva il colpo di pistola”.
François Truffaut
Nove anni dopo è lo stesso Truffaut che decide di portare sullo schermo il romanzo “La sposa era in nero” di William Irish (Cornell Wollrich), uscito nelle librerie nel 1940, un libro che lui stesso da adolescente leggeva di nascosto da sua madre. Il regista francese ha sempre amato il romanziere: “Irish per me è il grande scrittore della série Bleme, cioè un artista della paura, dello spavento e delle notti bianche. Nei suoi libri si incontrano pochi gangster e comunque restano sullo sfondo dell’intrigo, che è generalmente incentrato su un uomo o una donna qualunque, con i quali il lettore potrà identificarsi facilmente. Ma l’eroe di Irish non lascia niente a metà e nessun imprevisto può arrestare il suo cammino verso l’amore e la morte. Nel suo universo, i cui personaggi ipervulnerabili e ipersensibili sono agli antipodi del consueto eroe americano, ci sono anche molte amnesie e turbe mentali. In Irish c’è un misto di violenza americana e di prosa poetica francese che mi commuove”. (Francois Truffaut “La biografia” di Antoine de Baecque e Serge Toubiana Lindau Editore).
Grazie all’amica del regista Helen Scott vengono negoziati i diritti cinematografici di “La sposa in nero” (è il titolo scelto per il film), la cui protagonista sarà Jeanne Moreau. Truffaut incontra lo scrittore una mattina a colazione “Vedendolo arrivare- ricorda- sono rimasto stupito, sembrava uscito dalla tomba, aveva la pelle grigiastra. Era una persona molto riservata e solitaria”. La pellicola, uscita nelle sale il 17 aprile 1968, totalizza a Parigi e nella regione parigina circa 300.000 spettatori dopo quattro settimane di prima visione e poi continuerà a trionfare al botteghino anche a livello internazionale. La storia che tanto appassionerà il pubblico, è quella di uno sposo ucciso da un colpo di fucile sparato da una finestra di una casa lì vicino, mentre sta uscendo dalla chiesa dopo la cerimonia nuziale al braccio di Julie, la sua sposa. Il delitto è consumato per errore da cinque amici, che volevano colpire per una scommessa il parafulmine della chiesa. La donna, determinata nella sua vendetta, troverà il modo di eliminare diabolicamente i responsabili della sua vedovanza. Tra gli altri interpreti Michel Bouquet, Jean-Claude Brialy, Charles Denner.
Nel 1968 Truffaut decide di trasferire in immagini un altro romanzo di Woolrich, “Vertigine senza fine” del 1947. Il film in francese si intitola “La Sirène du Mississippi” e in italiano “La mia droga si chiama Julie”. La trama ruota attorno a Louis Mahé, un ricco proprietario viticolo della Corsica che sposa Julie Roussel, una giovane donna del continente con la quale ha stretto una relazione tramite degli annunci matrimoniali. La ragazza però dopo il matrimonio fugge portandosi dietro tutto il denaro del conto aperto a nome dei due coniugi. Mahé infelice e deluso la ritrova per puro caso sulla Costa Azzurra.
La donna, il cui vero nome è Marion, gli confessa il suo triste passato di bambina cresciuta in un orfanotrofio e poi costretta a prostituirsi legandosi a Richard, suo amante e protettore. Louis sempre più innamorato di lei, uccide un detective sulle tracce della donna e la coppia ricercata dalla polizia si avvia verso la frontiera italiana per sfuggire alla giustizia. In uno chalet di montagna la crudele Marion però tenta di avvelenarlo, ma alla fine l’amore prevale su tutto. I due amanti si allontanano nella neve verso il loro destino.
I due più grandi divi del cinema francese di quel periodo, Catherine Deneuve e Jean-Paul Belmondo, sono i protagonisti del film che esce il 18 giugno 1969 lasciando la critica perplessa e il pubblico piuttosto freddo. “La mia droga si chiama Julie”, un’opera incompresa, alla fine di luglio 1969 viene ritirata dalle sale. La pellicola avrà poi un remake nel 2001 intitolato “Original Sin” diretto da Michael Cristofer con Antonio Banderas e Angelina Julie. A cinquantadue anni dalla scomparsa Cornell Woolrich, l’inventore del romanzo nero, continua ad appassionare i lettori e ad ispirare i cineasti. I personaggi delle sue storie, vittime del destino, rappresentano in fondo la fragilità della nostra esistenza.