sogg e sceneggiatura Giorgio Diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni cast Elio Germano (Antonio Ligabue) Oliver Ewy (Antonio giovane) Leonardo Carrozzo (Antonio bambino) Pietro Traldi (Renato M. Mazzacurati) Orietta Notari (mamma di Renato) Fabrizio Careddu (Ivo) Andrea Gherpelli (Anrea Mozzati) Francesca Manfredini (Cesarina) Daniela Rossi (mamma di Cesarina) Murizio Pagliari (Sassi) genere drammatico prod Ita 2020 durata 120 min.
Raccontare la vita di un artista sullo schermo è un esercizio molto praticato dal cinema. Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Van Gogh, Renoir e molti, molti altri pittori hanno fornito materiale a cominciare dalla propria vita, spesso avventurosa o tragica, prima ancora che dalle proprie opere, note anche ai profani. Antonio Ligabue non fa eccezione, oggetto, come molti dei nomi citati, anche di attenzioni televisive con il notevole “sceneggiato” in tre puntate del 1977 di Salvatore Nocita per l’interpretazione di uno straordinario Flavio Bucci. Va detto che la miniserie Rai aveva, alla sceneggiatura, un certo Cesare Zavattini, reggiano di Luzzara, paese rivierasco del Po a 6km dal Gualtieri di Ligabue. Che Zavattini aveva anche conosciuto di persona.
Per giunta 44 anni fa il make up cinematografico non aveva neppure lontanamente raggiunto la “mostruosità” di cui è capace oggi per cui, in mancanza di adeguato cerone, il povero Bucci si era dovuto inventare un Ligabue tutto interiore benché poco simile fisicamente all’originale. Tutto questo per dire cosa? Nei film biografici, e in particolare nei film biografici sugli artisti, conta soprattutto lo scavo nell’anima, l’immersione nella psiche di quelle persone che sono uscite dall’ordinario per una loro personale visione del mondo, spesso in conflitto con il mondo reale del loro tempo. Ecco: la qualità cinematografica dipende esattamente da questo. Fatto dimostrato, indirettamente, da un grande regista come Andrej Tarkowskij che nel suo film sul pittore di icone russo Andrej Rublëv (1966) in oltre tre ore di proiezione non mostra neppure un quadro. E veniamo al film di Giorgio Diritti che, accanto alla straordinaria “maschera” elaborata sul volto del pur bravo Elio Germano, si ferma proprio alle soglie del cuore dell’artista Ligabue. Bene descriverne la disgraziata infanzia zurighese, bene l’ambientazione padana nella Gualtieri di oggi sostanzialmente immutata rispetto a quella degli anni ‘40 e ‘50, bene tutto quello che riguarda la “cornice” biografica del pittore naif, male, purtroppo, proprio la “discesa agli inferi” in una mente malata, ma in grado di provare sentimenti sublimi e capace di trasferirli sulla tela. E poi quei contadini, bimbi in testa, così lindi, paffuti e rosei che non c’entrano nulla con le reali condizioni di vita nelle cascine della Bassa dei tempi descritti. Come se il trucco&parrucco riservato a Germano avesse esaurito le risorse del reparto. A riprova dell’incapacità di Diritti di oltrepassare il puro dato esteriore per orientarci, noi spettatori, sulla bussola morale dell’artista, la resa sostanzialmente infelice del tumultuoso rapporto d’amore di Antonio per Cesarina. Anche questo stoppato sul nascere per paura di non essere abbastanza nazional-popolari.
E allora perché vederlo?
Perché comunque dai “matti” tutti noi abbiamo sempre molto da imparare.