tit. orig. Un divan à Tunis sceneggiatura Manele Labidi Labbé cast Golshifteh Farahani (Selma) Majid Mastoura (Naim) Aisha Ben Miled (Olfa) Feryel Chammari (Baya) Hichem Yacoubi (Raouf) Najoua Zouhair (Nour) Jamel Sassi (Fares) Ramla Ayari (zia Amel) Moncef Ajengui (zio Mourad) Zied El Mekki (Amor) Oussama Kochkar (Chokri) genere commedia lingua orig francese con alcune battute in arabo prod Tunisia, Francia 2019 durata 87 min.
Selma è con lo zio che la aiuta a scaricare i bagagli. Tra i pacchi si intravvede il ritratto in bianco e nero di un uomo barbuto, il volto corrucciato e un sigaro tra le dita. «Questo è il mio capo» dice con malcelato orgoglio la giovane e si tratta del celebre ritratto di Sigmund Freud, padre della psicanalisi, realizzato da Max Halberstadt nel 1922 per la rivista “Life” cui è stato aggiunto in photoshop un bel fez rosso aragosta. L’idea originale del film è proprio questa: aprire uno studio di psicanalisi in una capitale araba. Se poi a farlo è una “immigrata di ritorno”, ossia una donna francese di origini maghrebine, scatta immediatamente il corto circuito etnico-culturale tra le tradizioni islamiche e l’emancipazione della società europea, in particolare per quanto riguarda la condizione femminile. Detto questo, ossia detto della parte migliore del film, la più originale, bisogna però fare subito i conti con la realizzazione, ossia con la traduzione in immagini e in situazioni drammaturgiche dell’idea. E qui casca l’asino.
Il film è un’opera prima e si vede. Acerba, bozzettistica, piena di luoghi comuni e di macchiette, non di personaggi. Dalla parrucchiera con corteggio di improbabili clienti, a Raouf, il panettiere gay, alla funzionaria del ministero, ai poliziotti scemi. Versione araba di Bibì e Bibò, orfani di Capitan Cocoricò. Anche il personaggio della giovane cugina, incarnazione dei millenial cresciuti a social e ansiosi di fuggire dal paesello, lascia alquanto a desiderare e si configura alla fine con contorni marionettistici. Al pari di Naim, il “poliziotto buono” con cui la protagonista sogna, alla fine, un epilogo alla Chaplin con la coppia che si allontana lungo una spiaggia. Più una fugace suggestione che un’ipotesi di vita. Inoltre il taglio fortemente umoristico dato alla narrazione le toglie qualsiasi valenza di critica sociale o riferimento storico, tipo primavere arabe evocate a vanvera da diversi critici. Tanto che l’unico riferimento in tal senso, ossia la visita allo zio nostalgico di Ben Alì, si risolve nell’ennesima macchietta.
E allora perché vederlo?
Perché zio Sigmund in fez è troppo divertente. Soprattutto perché, come ricorda Selma, era ebreo.