titolo orig. Never Look Away sceneggiatura Florian Henckel von Donnersmark cast Tom Schilling (Kurt Barnert) Sebastian Koch (Carl Seeband) Paula Beer (Elisabeth Ellie Seeband) Saskia Rosendahl (Elisabeth May) Oliver Masucci (Antonius Van Verten) Ina Weisse (Martha Seeband) Florian Bartholomai (Gunther May) Hanno Kaffler (Gunther Preusser) genere drammatico prod Germania, Ita 2018 durata 180 min.
Più del titolo italiano, che pone l’accento sul “mestiere” del protagonista (il pittore), è illuminante quello originale (Mai distogliere lo sguardo) che si focalizza invece sulle sorgenti, sulle fonti del mestiere stesso, ossia sull’ispirazione che dà vita a ogni opera d’arte. E che spesso affonda le radici nell’infanzia più remota. È il caso del piccolo Kut Barnert che la zia Elisabeth porta con sé a vedere una mostra di “arte degenerata”, sotto la compunta guida di un funzionario del Reich. Siamo infatti nella Germania nazista del 1937, per giunta a Dresda, la “Firenze sull’Elba” meta nei decenni precedenti di intellettuali e artisti da mezza Europa. Il bambino è molto dotato per la pittura e la zietta ne coltiva l’inclinazione con pose a volte stravaganti, tanto da indurre i parenti a rivolgersi alle autorità sanitarie. Purtroppo le direttive del regime non prevedono solo la “soluzione finale” per gli ebrei e le altre “razze inferiori” (zingari, slavi ecc.), ma anche la soppressione dei tedeschi “impuri” a causa di malattie o, appunto, stravaganze del carattere.
Passano gli anni e i bombardamenti alleati che radono al suolo la città e le sue bellezze artistiche. A zio Adolfo subentra zio Baffone Stalin, ossia il comunismo nella sua versione più efferata e feroce. Kurt è cresciuto e, anche se disegna cartelli e insegne, il suo capo ne nota il talento e lo manda all’accademia di belle arti. Il che significa Realismo Socialista, declinato in tutte le forme. Qui il giovane incontra un’altra Elisabeth, con cui inizia una storia d’amore destinata a durare nonostante le contrarietà del padre di lei: lo stesso medico che aveva firmato la “condanna a morte” della zia. Magnifico esemplare di Tartufo del XX secolo, il personaggio chiave del film è appunto il professor Carl Seeband (ottimamente interpretato dal mite Sebastian Koch) le cui inossidabili fortune sotto il Terzo Reich, la Ddr e la società borghese occidentale la dicono lunga su una mentalità buona per tutte le stagioni, fuorché per l’empatia verso i propri simili. A cominciare dai più stretti congiunti. In parallelo con lo svilupparsi della carriera artistica di Kurt. E della sua difficoltà a trovare una strada autonoma, ossia un’estetica e uno stile. Che si manifestano solo quando il giovane pittore capisce che non deve guardare fuori o attorno a sé, ma nel profondo della propria anima e del proprio passato. Solo così le sue opere riusciranno a scalfire (prima e unica volta nella sua vita) la torva imperturbabilità dell’arcigno medico, diventato nel frattempo suo suocero.
Film corale, anche se con protagonisti a tutto tondo, storia non di un’epoca, ma di più epoche (Hitler, Stalin, Adenauer) condivise e concomitanti nella carne di uomini e donne che vivono e amano, soffrono e muoiono molto spesso senza una ragione precisa. O per decreto di un destino crudele che troppo spesso distoglie lo sguardo dall’umanità. Infine, se tre ore sembrano tante, pensiamo che si tratta pur sempre del racconto di una (mezza) vita. In ogni caso il respiro è quello di Heimat, bellissima opera-fiume del regista Edgar Reitz, di 924 minuti (oltre 15 ore), ambientato tra il 1914 e il 1982 nell’immaginario paese renano di Schabbach. Mirabile compendio di macro e micro storia attraverso quattro generazioni della stessa famiglia. Anche nel suo “piccolo film” Henckel von Donnersmark ha creato un’epopea.
E allora perché vederlo?
Perché che si tratti di musica (Wagner), di letteratura (Mann) o di cinema, i tedeschi, l’epopea, ce l’hanno proprio nel sangue.