sceneggiatura Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin cast Riccardo Scamarcio (Luciano Traini) Benedetta Porcaroli (Anna Costanzi/Esther Pauwel-Costa) Valeria Bilello (Amelia) Lino Musella (Osvaldo Lucchini) Sandra Ceccarelli (Elsa) Vincenzo Nemolato (Giovanni) Antonio Salines (il professore) Costantino Seghi (Corrado) Wael Sersoub (Emile Costa) produzione Ita 2022 genere drammatico durata 124 min
Citazione da www.movieplayer.it registrata in occasione della prima del film a Roma: “Per Giuseppe Piccioni il protagonista del suo film è un po’ come Humphrey Bogart in Casablanca. Nel mio film c’è un’idea di clandestinità: i comportamenti umani avvengono là dove non si sa nulla, nell’ombra. Come diceva Céline, tutto ciò che è interessante succede nell’ombra. Non si sa nulla della vera storia degli uomini. Il personaggio di Luciano ha scelto un bel nascondiglio da cui guardare il mondo e in cui far coesistere sia la sua simpatia per il fascismo, sia il suo restare appartato. Non è entrato nell’apparato di potere. È una specie di Rick di Casablanca: anche lui non ne vuole sapere delle cose della politica perché è disincantato”. E, a proposito del finale, Piccioni aggiunge: “La sua catarsi [di Luciano] non passa attraverso ciò che è prevedibile. È inaspettata: pur essendo fascista, come è successo a persone come Perlasca, per fortuna ha un momento di umanità. Lui dice che l’ha fatto soltanto per amore, ma in realtà è cambiato profondamente”.
Se citiamo questo ampio brano di intervista, disponibile sul web e dunque a prova di malinteso, è perché dimostra in maniera perfetta quanto sia pericoloso per la critica (seria) stare alle parole dell’autore per valutare e giudicare un’opera. Che sia cinematografica o di qualsiasi altra arte: musica, pittura, scultura, letteratura e via cantando. A una visione anche sommaria del film di Piccioni, al contrario di quanto affermato dal regista davanti a un microfono sin troppo compiacente, L’ombra del giorno non ha nulla a che fare con Casablanca e men che meno con Céline. Quanto al disincanto del personaggio interpretato da Scamarcio e alla sua catarsi finale, con relativo cambiamento profondo, ci spiace per l’autore, ma le immagini che lui ci propone sullo schermo testimoniano piuttosto il contrario. Luciano non è un disincantato, ma un conformista. Come la maggioranza degli italiani nei cosiddetti “anni del consenso”, ossia nel decennio dei ‘30, quando il fascismo era entrato davvero nel Dna della popolazione.
Lo stesso Dna che oggi rifà capolino (e anche qualcosa di più, purtroppo) in quei figli, nipoti e pronipoti dei qualunquisti di allora che pensano (alcuni persino in buona fede) che il fascismo abbia fatto anche qualcosa di buono. Idem per la prevedibilità: molte situazioni, più che prevedibili sono addirittura “telefonate” e le decisioni del protagonista, almeno dalla metà in poi e, soprattutto, nel finale, ci dicono che agisce unicamente per amore, per un’irrazionale, insana passione che vive comunque, pur sapendo non solo che non si realizzerà, ma che lo porterà dritto alla rovina. Perché il film di Piccioni, anche se collocato in uno dei momenti più bui (più neri) della storia d’Italia, non è altro che una storia d’amore. Un amore malato e impossibile per sua stessa natura, non per le condizioni esterne in cui si estrinseca. Del resto in tutta la sua carriera Piccioni non ha fatto altro che raccontare storie d’amore. Più o meno condizionate dalla storia. Mai viceversa. Per quanto riguarda invece i riferimenti estetici piuttosto che a Casablanca, alcune sequenze ci portano a pensare piuttosto a un altro film, migliore di quello americano, ossia a Una giornata particolare (1977) di Scola. E, anche se Scamarcio non è Mastroianni né, tanto meno, la Porcaroli rasenta neppure da lontano la Loren, Piccioni riesce a confezionare diversi minuti di buon cinema. Specialmente nelle scene con l’escursione in bicicletta proprio in quel 6 maggio del 1938, giorno della visita di Hitler a Roma, che racchiude temporalmente il film di Scola. Non solo. Altre scene, situazioni, momenti (la rimpatriata di gerarchi e capetti locali nel ristorante di Luciano appositamente requisito), il tempo sospeso alla vigilia della dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, ci rimandano proprio a quel cinema del consenso, leggero per non dire fatuo, prodotto dalla Cinecittà mussoliniana. Ai film di Nazzari e De Sica padre, di Assia Noris e Doris Duranti, di “Parlami d’amore Mariù” e dei telefoni bianchi. Oppure ai cinegiornali Luce, agli stentorei proclami dei documentari di propaganda. Un milieu che Piccioni ha saputo ricreare mirabilmente nella sua Ascoli Piceno. Città che è riuscito a far diventare protagonista a sua volta. Con la magnifica Piazza del Popolo (uno dei gioielli d’Italia) e l’altrettanto magnifico Caffè Meletti dove sono state girate i quattro quinti delle scene.
E allora perché vederlo?
Perché gli uomini (e le donne), anche nei momenti peggiori, riescono a trovare la forza per amare.
DVD selezionati da Riccardo E. Zanzi, recensione di Auro Bernardi