sceneggiatura Peter Farrelly, Brian Hayes Currie, Nick Vallelonga cast Viggo Mortensen (Frank Anthony “Lip” Vallelonga) Mahershala Ali (Donald “Don” Shirley) Linda Cardellini (Dolores Vallelonga) Don Stark (Jules Podell) Sebastian Maniscalco (Johnny Venere) Brian Stepanek (Graham Kindell) Iqbal Theba (Amit) Dimiter D. Marinov (Oleg) genere commedia prod Usa, 2018 durata 125 min
Un Oscar in bacheca come miglior film (più altri due di contorno) e furibonde contestazioni da parte di molti artisti hollywoodiani di colore a cominciare da Spike Lee. Stelle e stalle, polvere e altari: ‘sic transit gloria mundi’. Ma perché tutto ciò? Se da un lato le statuette possono sembrare un premio sin troppo generoso, dall’altro le contestazioni erano decisamente fuori luogo. Del resto cosa aspettarsi da un film in cui c’è lo zampino Dreamworks? Un finalino strapiacione, non certo una lezione di cinema-verità. Puntare il dito sull’eccessiva edulcorazione del problema razziale è un bersaglio sbagliato.
“Green Book” non è un film sul razzismo. Anche se è ambientato negli anni ’60 e nel Profondo Sud degli States dove gli artisti di colore non potevano cenare nella stessa sala dove, di lì a poco, sarebbero stati accolti in pompa magna come ospiti di riguardo. Del resto, qualche decennio prima, anche il grande Jesse Owens, trionfatore alle Olimpiadi di Berlino, dovette entrare dalla porta di servizio nel teatro in cui si teneva il Gala in suo onore. Perché l’ingresso principale era riservato ai bianchi. “Green Book” è il classico, consueto film della “strana coppia” che fa ridere, sorridere e, perché no, anche un po’ riflettere proprio per il suo strambo assortimento. On the road, per giunta. Ovvero con tutto l’armamentario dei vecchi, cari luoghi comuni sulle varie zone del Grande Paese. Dal pollo fritto del Kentucky agli italoamericani divoratori di spaghetti. E poco male che, contrariamente al solito, i due personaggi principali siano persone realmente esistite. Così come il viaggio raccontato nel film si sia realmente svolto. Non importa nulla. Siamo nei paraggi di Quasi amici (2011): pura finzione, sarcasmo, gag a ritmo serrato anche qui sull’esile riverbero di una storia vera. A differenziare i due film il fatto che nel francese il bianco era ricco, colto ed educato e il nero un avanzo di banlieu mentre nell’americano i ruoli sono ribaltati. Don è ricco, colto, forbito e ieratico. Tony è buzzurro, volgare, ignorante e rissoso. Ma, in fondo, dove sta il problema se chi ha di più trasmette un po’ del suo sapere a chi ne ha meno? E non è detto che quando c’è da sporcarsi le scarpe in una strada fangosa serva di più la cultura accademica della scuola da marciapiede. Doverosa, per finire, la solita nota dolente sul doppiaggio. Uno dei punti di forza del film è proprio l’uso del linguaggio che caratterizza i vari personaggi. L’inglese forbito e persino un po’ lezioso di Don in contrapposizione a quello approssimativo e sboccato di Tony. Le inflessioni slave di Oleg nonché il ricorso a brevi frasi in italiano nella famiglia (anche quella allargata e mafiosetta) dei Vallelonga. Non solo: alcune gag sono proprio basate sui diversi registri linguistici usati. Come nel caso delle lettere che Tony scrive alla moglie Dolores e che Don aiuta a comporre correggendo errori di grammatica e sintassi. Ovviamente sotto il rullo compressore del doppiaggio di tutte queste sfumature non resta nulla. E le lettere sembrano quelle di Totò e Peppino alla “malafemmina”. Ma, in questo caso, non è propriamente un merito.
E allora perché vederlo?
Perché anche i truzzoloni possono insegnare qualcosa ai fighetti. Indipendentemente dal colore della pelle.