In Italia mancano 65.000 infermieri, che vanno reperiti, formati in modo completo e innovativo, per confrontarsi e lavorare in sinergia con altri professionisti della salute, e con un compenso adeguato a formazione e prestazioni. Ma l’immagine sociale di questo ruolo professionale sembra non incentivare le “vocazioni” tra i giovani. Che sia “colpa” anche del cinema? Lo abbiamo chiesto ad Auro Bernardi, critico cinematografico e cultore degli aspetti sociali al cinema connessi.
Cosa ci viene in mente, di primo acchito, se pronunciamo, abbinandole, le parole “infermiere” (o infermiera) e “cinema”? Nel migliore dei casi qualche commedia sexy anni ‘70, tipo L’infermiera nella corsia dei militari (Mariano Laurenti, 1979) oppure qualche sadica aguzzina in camice, tipo la caposala Mildred Ratched (Luise Fletcher) in Qualcuno volò sul nido del cuculo (Milos Forman, 1975) o la psicopatica Annie Wilkes (Kathy Bates) in Misery non deve morire (Rob Reiner, 1987). Tanto efficaci e credibili, queste ultime interpreti, da essere premiate con l’Oscar per la recitazione.
Retaggi del passato
Prima di addentrarci nel ginepraio dei titoli di fiction che in vario modo hanno raccontato sullo schermo questa professione, varrebbe, però, la pena vedere il documentario Il buon lavoro che c’è (2022) di Simone Aloisio e Lorenzo Munegato presentato al Festival di Venezia dello scorso anno. Nel film gli autori indagano alcuni comparti significativi per l’economia del nostro Paese in cui c’è piena occupazione, se non addirittura carenza di addetti. Dall’agricoltura alla moda, al turismo, alla sanità, appunto. Ed ecco allora le testimonianze di Erika Pistillucci e Myriam Scaramella, infermiere al Policlinico di Ponte San Pietro (Bg) che fa parte del Gruppo San Donato, uno dei colossi privati della sanità lombarda. Oltre che della loro esperienza in corsi, Erika e Myriam parlano anche di come sia cambiato il mestiere dell’infermiere, con nuove competenze, e di come, invece, certi retaggi del passato siano falsi e fuorvianti. Retaggi che sembrano invece essere proprio i più utilizzati dal cinema di fiction.
Dal fascismo al dopoguerra
Ma non ci sono solo procaci fanciulle strizzate in camici da cui debordano le grazie o mascoline virago sadiche e perverse. Nel periodo tra le due guerre e negli anni ‘50 compare un altro stereotipo: l’infermiera eroica e votata all’abnegazione, specialmente se opera in scenari bellici come crocerossina o ausiliaria. Vediamo alcuni titoli a partire da quel cinema di regime articolato, appunto, su ben definiti cliché sociali, non solo sanitari. Giarabub (Goffredo Alessandrini, 1942) è una delle opere più significative di propaganda fascista e narra, romanzandolo, un episodio della Seconda Guerra Mondiale: l’annientamento di un avamposto dell’esercito italiano nel deserto libico. Ebbene, tra i personaggi compare anche la prostituta Dolores (Doris Duranti) che, al momento del bisogno, si trasforma in infermiera redimendosi, per così dire, dalla precedente vita peccaminosa.
Negli stessi anni anche Roberto Rossellini, futuro maestro del Neorealismo, realizza una trilogia di impronta vagamente apologetica, pur mantenendo una notevole autonomia espressiva e creativa. La prima anta del trittico si intitola La nave bianca (1941). Forte taglio documentaristico, riprese in esterni e su vere imbarcazioni della Regia Marina, narra il ricovero di alcuni militari su una nave-ospedale (da cui il titolo). Storia nella storia, la relazione sentimentale tra una giovane maestra e un marinaio che si ritrovano appunto, all’insaputa uno dell’altra, sulla nave bianca. Lui ferito, lei infermiera volontaria.
Nel dopoguerra, Alberto Lattuada porta in scena una suora infermiera nel suo film Anna (1951), melodrammatica storia d’amore preceduta da una ventina di minuti quasi documentaristici sull’attività quotidiana di medici, infermieri e pazienti in una grande struttura sanitaria all’avanguardia per l’epoca: il Niguarda di Milano.
Di un particolare tipo di specializzazione infermieristica, l’ostetrica, tratta invece Il momento più bello (Luciano Emmer, 1957). Luisa (Giovanna Ralli), la protagonista, è appunto una levatrice, ma anche qui il cosiddetto “neorealismo rosa”, ossia le vicende sentimentali in un edulcorato ritratto sociale, prevalgono sulla narrazione realistica di un reparto ospedaliero di maternità e delle relative professioni mediche e paramediche.
Generi e sottogeneri
Nei 70 anni che intercorrono tra il 1950 e il 2020 si contano poco più di una cinquantina i film italiani in cui è presente la figura infermieristica. Con le caratteristiche già accennate: si parte dagli “angeli in camice bianco” dell’immediato dopoguerra per arrivare, nel giro di un decennio, alla debordante compagnia di giro della sexy-commedia composta dai vari Lino Banfi, Alvaro Vitali, Renzo Montagnani, Pippo Franco, Pino Caruso, Lando Buzzanca, Francesco Mulè e, sul fronte femminile, da Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Nadia Cassini, Anna Maria Rizzoli, Gloria Guida, Michela Miti, Daniela Giordano e altre bellezze da copertina dell’epoca. Infermiere sì, ma a volte anche con la laurea in medicina, tipo La dottoressa ci sta col colonnello (Michele Massimo Tarantini, 1980). Comunque e sempre umorismo da caserma con una pin up in camice che fa girare la testa a colleghi e assistiti. Un fenomeno di studio più per sociologi che per critici cinematografici che annovera persino autentici specialisti del genere come Nello Rossati (L’infermiera, 1975), Mariano Laurenti (il già citato L’infermiera nella corsia dei militari e L’infermiera di notte, 1979) e Mario Bianchi (L’infermiera di mio padre, 1975 e L’infermiera di campagna, 1982).
Tra satira e critica
Per quanto riguarda, invece, l’infermiere di sesso maschile, eccolo a sua volta connotato in maniera piuttosto dozzinale, sia fisicamente sia professionalmente. Figure tragicomiche, tra il ridicolo e il patetico, distratti, oggetto di derisione o, nel migliore dei casi, puri e semplici capri espiatori che screditano agli occhi dello spettatore il lavoro infermieristico e le relative competenze professionali. Tra i titoli con queste caratteristiche: Gli infermieri della mutua (Giuseppe Orlandini, 1969), Un sacco bello (Carlo Verdone, 1980) e Le comiche 2 (Neri Parenti, 1991). In veste di laureato in medicina, ma con relativo codazzo di infermieri, non poteva certo mancare nel genere la maschera italiota per eccellenza: Alberto Sordi. Protagonista del Medico della mutua (Luigi Zampa, 1968) con inevitabile sequel: Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue (Luciano Salce, 1969) e l’ancor più inevitabile parodia: Pierino medico della Saub (Giuliano Carmineo, 1981) con Alvaro Vitali.
Diversa la connotazione che Ettore Scola dà della professione paramedica nel suo affresco sull’Italia del dopoguerra C’eravamo tanto amati (1974). Antonio (Nino Manfredi), uno dei quattro protagonisti maschili, comunista ex partigiano, fa il portantino, ossia l’addetto al trasporto dei malati con l’ambulanza. Una figura oggi scomparsa in quanto il servizio è affidato a personale esterno, per lo più volontario. Caratteristica del personaggio è la sua personale battaglia, lavorativa e ideologica, contro la caposala, una suora particolarmente reazionaria e bigotta. Qualcosa di simile a quanto avviene alla fine di Io speriamo che me la cavo (Lina Wertmüller, 1992), dal fortunato omonimo libro del “maestro di strada” Marcello D’Orta, con il duro scontro tra il docente e una suora-caposala tra pazienti abbandonati in corridoio e infermieri sfaccendati che non si prendono cura dei malati. Più una critica alla malasanità pubblica in generale che alla professione infermieristica. Lo stesso si può dire del film In barca a vela contromano (Stefano Reali, 1997) che verte sul traffico dei posti letto e delle liste d’attesa di un grande nosocomio romano. E altri loschi traffici dietro le quinte di Asl e ospedali.
Nel nuovo millennio
Con il nuovo millennio gli stereotipi sfumano in una narrazione un poco più aderente alla vera realtà professionale paramedica. E si annullano anche le differenze di genere. Fatto sempre salvo lo stesso bersaglio, ossia la malasanità. Ribelli per caso (Vincenzo Terracciano, 2001), che mette in scena una sorta di rivoluzione gastronomica in una corsia d’ospedale, schiera curiosamente nel cast lo stesso protagonista (Antonio Catania) di In barca a vela contromano. Permane anche una sorta di strascico folkloristico con i personaggi di Enzo (Peppe Jodice) e Maria (Gea Martire): assenteista e scansafatiche lui, empatica e competente lei. Tanto che i pazienti chiedono esplicitamente «Infermieri come Maria, non come Enzo».
Un film che, a parere di Fnopi (Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Infermieristiche), valorizza correttamente il lavoro paramedico è Questioni di cuore (Francesca Archibugi, 2009), storia di un’amicizia nata nelle corsie ospedaliere tra due uomini di estrazione sociale, cultura e temperamento diversissimi. Anche se si scivola, ancora una volta, nello stereotipo della liaison tra un’infermiera e un paziente.
Infine, L’aquilone di Claudio (Antonio Centomani, 2016) mescola le carte tra professione ed emozione con la storia di un infermiere, padre di un ragazzo affetto da una malattia rara. La macchina da presa segue il protagonista mentre svolge egregiamente il proprio lavoro anche se il dramma si sviluppa tra le mura domestiche.
Una nota di Fnopi sull’argomento infermieri-cinema ci aiuta a concludere l’excursus nel cinema italiano. In quella cinquantina di film di cui abbiamo cercato di dare la sintesi, la professione infermieristica viene presentata così: un mestiere prevalentemente femminile sulla base di una “vocazione” di servizio, spesso (anni ‘50 e ‘60) derivata da scelte religiose. Un ruolo ancillare-ausiliario rispetto alla più prestigiosa professione medica. La connotazione erotica per il personale femminile e quella assenteista-scansafatiche per gli uomini. Infine, un’esigua minoranza di titoli che forniscono uno spaccato reale fatto di competenze tecniche, relazionali, educative e organizzative che competono effettivamente a questa fondamentale figura sanitaria.
In giro per il mondo
Detto dell’Italia, possiamo dare un rapido sguardo a quanto è avvenuto e avviene all’estero, a cominciare naturalmente dal cinema americano. La prima impressione è che la situazione internazionale non differisca molto da quella di Cinecittà. Alla tipologia di film con infermiere-crocerossine votate all’abnegazione, in lotta contro un sistema retrogrado e che vanno a salvare vite spesso a rischio della propria, appartengono Addio alle armi (Frank Borzage, 1932), dall’omonimo romanzo di Hemingway del ‘29, Angeli della notte (George Stevens, 1940), dall’omonimo romanzo di Cronin del ‘39, L’angelo del dolore (Dudley Nichols, 1946), e L’angelo bianco (William Dieterle, 1963) biopic di Florence Nightingale, la nobildonna inglese nata a Firenze nel 1820 considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna. Con Pearl Harbor (Michael Bay, 2001) cambiano gli scenari bellici e l’epoca di realizzazione del film, ma non gli stereotipi: l’infermiere/a spicca per forza morale, bontà e abnegazione. Insomma, ancora il mestiere come missione salvifica.
Tra i film di argomento bellico spicca la lodevole eccezione di M.a.s.h. (Robert Altman, 1970) ambientato in un ospedale da campo durante la Guerra di Corea (1950-53). La chiave comica veicola un preciso intento di critica antimilitarista focalizzato nei personaggi più sbeffeggiati del film: il maggiore Frank Burns (Robert Duvall) e la sua amante, maggiore Margaret Houlihan (Sally Clare Kellerman), la capoinfermiera soprannominata Hot Lips in originale e Bollore nell’insensato doppiaggio che ha annacquato anche la massima parte degli altri imbarazzanti nickname.
Altrettanto umoristici i personaggi interpretati da Cloris Leachman in due film di Mel Brooks in cui compaiono figure infermieristiche quantomeno singolari: la misteriosa Frau Blücher, il cui nome, al solo pronunciarlo, fa nitrire di paura i cavalli, amante e assistente del defunto barone che fa ritrovare al giovane Frederick gli appunti del nonno in Frankenstein jr. (1974), e la truce Fratella Diesel in Alta Tensione (1977). Su questo stesso fronte si colloca anche il film inglese Si spogli… infermiera (Robert Asher, 1963) ispirato alla comicità di Jerry Lewis con tanto di protagonista en travesti.
Il rapporto infermiera-paziente è al centro di film drammatici come Il paziente inglese (Anthony Minghella, 1996) e La forza della mente (Mike Nichols, 2001) con una connotazione positiva del lavoro infermieristico.
Assenti nel cinema italiano, in quello americano non mancano invece titoli in cui gli infermieri non sono altro che sadici dispensatori di dolore e morte. Oltre ai già citati Qualcuno volò sul nido del cuculo e Misery non deve morire, è il caso di Anime in delirio (Curtis Bernhardt, 1947) melodramma a sfondo psicologico con la diva dell’epoca Joan Crawford, abbonata a simili ruoli, e Kill Bill-vol I (Quentin Tarantino, 2003), in cui un infermiere cerca di far stuprare la Sposa (Uma Thurman) da un camionista,
Più recenti, segnaliamo Nurse-L’infermiera (Douglas Aarniokoski, 2014), un horror-thriller-erotico che pare ricalcato sui fasti della commedia sexi all’italiana con l’aggiunta di dosi massicce di violenza yankee mentre The Good Nurse (Tobias Lindholm, 2022) è un giallo che riproduce sullo schermo, romanzandola, la storia realmente avvenuta dell’inseguimento e della cattura di Charles Cullen (Eddie Redmayne), infermiere-omicida di centinaia di pazienti nei nosocomi del New Jersey e della Pennsylvania. L’infermiera Swatty (Jessica Chastain), sua collega, viene coinvolta nel caso e aiuta la polizia nella cattura del killer. Qualcosa che richiama alla mente fatti analoghi di cronaca nera avvenuti in ospedali italiani come i casi del chirurgo Brega Massone e Cazzaniga-Taroni, il medico e l’infermiera di Saronno, tutti condannati per omicidio.
Icona fotografica
L’ospedale può, però, essere anche luogo di ispirazione se è vero, come affermano i biografi del grande regista svedese, che Ingmar Bergman scrisse la sceneggiatura del suo capolavoro Il posto delle fragole (1957) durante un ricovero ospedaliero.
Un camice bianco indossato da una donna è diventato inoltre un’icona fotografiche del ‘900: Il bacio tra un soldato di marina e un’infermiera (in realtà un’igienista dentale) a Times Square, New York, il 14 agosto 1945. Mentre la folla festeggiava per le strade la vittoria degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, il fotografo Alfred Eisenstaedt immortalò un bacio che sarebbe divenuto il simbolo di quella giornata storica. Per anni i protagonisti rimasero ignoti, fino al 1980. Lui era (probabilmente) il sergente George Mendonsa, lei (sicuramente) Greta Friedman, morta a 92 anni nel 2016. Dopo quel bacio “rubato” non si rividero mai più.
di Auro Bernardi