tit orig Un fils sogg e sceneggiatura Mehdi M. Barsaoui cast Sami Bouajila (Fares) Najla Ben Abdallah (Meriem) Youssef Khemiri (Aziz) Noomen Hamda (dr. Dahoui) Qasim Rawane (D108) Slah Msaddak (l’uomo d’affari) Mohamed Alì Ben Jemaa (Sami) genere drammatico lingua orig arabo e francese prod Tunisia, Francia, Libano, Qatar 2019 durata 96 min.
Tunisia, settembre 2011 ovvero qualche mese dopo la caduta di Ben Alì e qualche settimana prima della morte di Gheddafi. Dopo la rivoluzione dei gelsomini e l’inizio delle primavere arabe. Quelle primavere cui è immediatamente seguito un gelido inverno di guerre, carneficine e devastazioni con risultati ancora sotto gli occhi del mondo. Ma torniamo in Tunisia e al settembre 2011. Fares e Meriem sono una coppia benestante di mezza età, laica e occidentalizzata. Bevono birra, lei non solo gira a capo scoperto ma con t-shirt attillate e jeans altrettanto aderenti. Tra loro e con i loro amici parlano francese, lingua delle élite. Appartengono insomma all’alta borghesia, con ruoli apicali in aziende importanti, e girano su una costosa Range Rover. I due hanno un bambino di 11 anni, Aziz, cui sono naturalmente affezionatissimi. Nel corso di una breve vacanza nel sud del paese, lungo una strada in mezzo al deserto, la Rover finisce però coinvolta in una sparatoria provocata da fondamentalisti islamici e ad avere la peggio è proprio il bambino, ferito gravemente all’addome. Il resto del film è la storia “ospedaliera” di Aziz, bisognoso di un trapianto di fegato, operazione per la quale nessuno dei due genitori risulta compatibile.
Anzi, proprio tale doppia incompatibilità porta a galla un segreto rimasto tale per 11 lunghi anni che diventa così il motore drammaturgico della vicenda. Uno sviluppo parallelo nell’alternarsi delle scene, ma sempre più divergente nell’anima e nella psiche di Fares e Meriem costretti a confrontarsi con una realtà via via più drammatica pur di salvare la vita del loro unico figlio. Fares risucchiato in una spirale perversa di magliari che gli promettono organi da trapianto “à la carte”, previo cospicuo esborso di denaro total black, Meriem alle prese con antichi e nuovi egoismi di chi rifiuta di assumersi le proprie responsabilità o anche di mostrarsi semplicemente capace di un gesto generoso. Detto questo sui contenuti del film, va subito aggiunto che quanto di meglio sfila sullo schermo non è solo il “cosa”, ossia una storia ben congegnata, tesa e vibrante, ma soprattutto il “come” tale storia si dipana: senza cesure ne pause, senza retorica né enfasi. Nei personaggi principali come nei comprimari. I primi nel difficile ruolo di rendere un’amplissima gamma di sentimenti soprattutto attraverso lunghe inquadrature ravvicinate, i secondi con un surplus di credibilità, anche senza pronunciare una battuta, come gli altri pazienti in attesa nell’astanteria del pronto soccorso.
Oppure rendendo credibile, vera come è la vita, anche la più atroce delle situazioni. In entrambi i casi il merito sta nella regia, un consumato mestiere che sorprende in un esordiente di 38 anni (Barsaoui è al suo primo film dopo 3 cortometraggi) formatosi all’estrema periferia di quella che dovrebbe essere la mecca del cinema (Hollywood), ma che in realtà è ormai solo una fabbrica di belle statuine in movimento tra effetti speciali. Parlare di grande cinema per questo piccolo film tunisino (piccolo sicuramente nel budget) non è esagerato. Se è vero, come affermano serissime persone che il cinema lo fanno e lo fanno in modo egregio, che ormai il cinema è morto, è altrettanto vero che, ogni tanto, si assiste a qualche improvvisa e inaspettata resurrezione che lascia ben sperare. Per il presente e per il futuro del cinema. Al di là dell’enfasi, resta il fatto che le qualità di Un figlio sono squisitamente cinematografiche e, dunque, difficilmente condensabili in parole scritte. Come si fa a descrivere uno sguardo? A sintetizzare una corsa nel deserto lunga una notte più profonda dell’anima? Ecco: questo film riesce dove pochi riescono ossia a caricare di significato le immagini che non sono mai solo quello che rappresentano oggettivamente. Un esempio per tutti: la Moschea di Douiret, che da location per catalogo turistico si trasforma in luogo del sentimento. Al pari di una colonna sonora discreta, ma presente nel momento e nel modo più opportuno. Positivo anche il fatto che fino a qualche anno fa, questo sarebbe stato solo un film da festival e neppure da Croisette o da Lido di Venezia, ma magari da Festival del Cinema Africano a Milano mentre oggi entra in circuito grazie a distributori lungimiranti (I Wonder Pictures). Che dovrebbero esserlo ancora di più e fare un ulteriore, piccolissimo sforzo: distribuirlo solo in lingua originale con i sottotitoli. Cosa che aggiungerebbe un valore immenso a quanto di buono già si vede sullo schermo.
E allora perché vederlo?
Semplicemente proprio perché è un film bellissimo.