sceneggiatura Marcelo Martinessi cast Ana Brun (Chela) Margarita Irún (Chiquita) Ana Ivanova (Angy) Nilda Gonzalez (Pati) María Martins (Pituca) Alicia Guerra (Carmela) Regina Duarte (Odilia) Raul Chamorro (Cesar) genere drammatico prod Paraguay, 2018 durata 97 min.
Chela e Chiquita sono una coppia matura. Discreta, quieta, senza clamori. Vivono in una grande magione della capitale paraguagia, Asunción, accudite da Pati, una fantesca analfabeta. La casa è retaggio di una ricchezza che fu e che svapora quasi di giorno in giorno mediante la vendita di mobili, suppellettili, beni e oggetti di famiglia, alienati per tirare avanti. Sempre mantenendo il bon ton di facciata e le care, vecchie abitudini della buona società. Delle due, Chela è la più introversa: non esce di casa, non partecipa alle feste dove invece Chiquita folleggia, non ha la patente e non giuda l’automobile, una vecchia Mercedes anch’essa parte del lascito avito, che Chiquita invece usa abitualmente. L’equilibrio si spezza quando Chiquita deve farsi qualche mesetto al fresco per un vecchio conto in sospeso con la giustizia. Lasciata a se stessa, Chela si deve inventare una nuova vita non più a rimorchio. Per una strana combinazione del destino è proprio l’automobile a determinare il risveglio. Con il passaggio dato ad alcune vecchiette del quartiere e poi ad Angy, misteriosa ragazza invischiata in affari non troppo trasparenti. E proprio l’incontro con la più giovane Angy mette in crisi tutto il vissuto di Chela, costretta alla fine a prendere una decisione non indolore. Film di donne, dove la “prima metà” del cielo (gli uomini) è assente o solo evocata, ricordata, sbeffeggiata. O dove non fa certo un figurone, come Cesar, l’equivoco amico di Angy. Film la cui materia è intrigante, i personaggi pure, anche in ragione della loro non più verde età. Il regista ha un tocco discreto, sottolineato ripetutamente dallo sbirciare della macchina da presa attraverso porte e tendaggi oppure indugiando sulle immagini riflesse negli specchi o su alcuni dettagli come il rituale vassoio stracarico di “buone cose di pessimo gusto” che al termine vanno in frantumi. La fotografia “sporca”, ossia sottoesposta e con dominanti cromatiche terrose, il simbolo della libertà su quattro ruote molto caro a tutto il cinema del Nuovo Continente, fanno di questo film un’opera non dozzinale. Eppure la sensazione che lascia alla fine è qualcosa di imperfetto, di irrisolto. E non certo per il classico “finale aperto”. Una bella calligrafia fatta di parole insignificanti. Come entrare in un ristorante stellato e trovarsi nel piatto un hamburger di McDonald. Duole dirlo, ma dall’emisfero sud americano abbiamo visto molto, ma molto di meglio. Per quanto riguarda poi l’Orso d’Argento della Berlinale assegnato ad Ana Brun come miglior attrice, siamo negli imperscrutabili misteri della fede. Avete presente l’espressione coniata per Clint Eastwood nei film di Sergio Leone? Ecco, qui non arriviamo neppure alle due espressioni, con gli occhiali o senza, ma restiamo a un perpetuo imbambolamento a sguardo vitreo e bocca socchiusa. Qualunque cosa accada. Se questo era il meglio, chissà le altre.
E allora perché vederlo?
Perché l’amore non ha età. A qualunque latitudine.