titolo orig. id. sceneggiatura Todd Phillips, Scott Silver cast Joaquin Phoenix (Arthur “Happy” Fleck) Robert De Niro (Murray Franklin) Frances Conroy (Penny Fleck) Zazie Beetz (Sophie Dumond) Bret Cullen (Thomas Wayne) Dante Pereira-Olson (Bruce Wayne) Douglas Hodge (Alfred Pennyworth) Shea Whigham (isp. Burke) Bill Camp (isp. Garrity) genere drammatico prod Usa, 2019 durata 123 min.
Non lo diciamo da oggi e, per fortuna, non siamo i soli: ormai i cosiddetti Festival della cosiddetta Arte Cinematografica non sono che marchettifici pubblicitari al servizio delle Major. Che li usano a loro piacimento per far propaganda gratuita ai propri blockbuster, magari nobilitati da qualche patacca. Altra nota dolente: le giurie. Una voltano ad assegnare i premi c’erano intellettuali, scrittori, critici (non necessariamente cinematografici) che rispondevano unicamente alla propria statura culturale. Oggi sono registi, attori, attrici o altri addetti ai lavori che rispondono a quello stesso mondo del cinema che dovrebbero giudicare in modo imparziale. E i risultati si vedono. Come il Leone d’Oro a questo film senza capo né coda, pensato, prodotto e realizzato unicamente per fare cassa. Copia conforme di un altro Leone farlocco: quello di due anni fa alla Forma dell’acqua. Ma tanto, ormai, è un vizio e non c’è niente da fare.
Un po’ Taxi Driver (Scorsese, 1976), un po’ Freaks (Tod Browning, 1932), il film squisitamente trumpista di Phillips ci porta in una metropoli americana anni ’70 (Gotham City) che sembra la Roma o la Napoli dei Duemila: invasa di monnezza e preda di gang giovanili. Qui, in un sobborgo di emarginati, vive Arthur Fleck, che abita un tugurio edipicamente condiviso con la madre Penny che accudisce amorevolmente persino nella vasca da bagno. Arthur è un disturbato, sicuramente per traumi infantili, preda di risate isteriche. Lo cura con sciatta professionalità una psicologa di base più interessata a mantenere la propria traballante poltrona che al benessere dei pazienti. Arthur, che la madre chiama Happy perché pensa che il rampollo sia nato per recare felicità al mondo intero, spera di diventare un comico famoso, ospite del Talk Show più seguito del paese, quello di Murray Franklin, e nel frattempo vivacchia facendo il clown di strada. A contatto quotidiano con la monnezza e la violenza che subisce di continuo. E da che ci siamo, diamo anche un colpetto all’Obama-Care: chiuso il centro di assistenza, Artur non piglia più psicofarmaci, ma “Senza medicine sto meglio” ipse dixit. Ebbene, che si fa in America in casi simili e a un tipo simile? Gli si regala una pistola, of course. Così, per difendersi naturalmente, il nostro uomo fa secchi tre molestatori in metro, guarda caso colletti bianchi del miliardario Thomas Wayne, proprio l’uomo che avrebbe sedotto e resa madre la povera Penny trent’anni prima. Ne scaturisce un crescendo rossiniano di violenza che il film ammanta come sociale (“Per me quel tipo è un eroe: tre stronzi in meno a Gotham” commenta Sophie, momentanea fiamma del vendicatore), ma che nessun connotato drammaturgico rivela come tale. È l’onda lunga del ’68? È la cultura Hippy? È la contestazione al Vietnam? È la rivolta razziale o quella giovanile? Mistero. Si brucia, si spacca e si mena per il puro gusto di farlo e il Joker (tale è ormai diventato il povero Arthur) si ritrova alla testa della plebe, ma manco sa perché e, tanto meno, per cosa. Ci avessero almeno risparmiato il pistolotto finale. Invece no: eccolo dietro le sbarre (perché il crimine non paga e sembra il Codice Hays), ma in sgargiante tenuta da carcerato. Finalmente accudito da una psicologa in ghingheri e saltellante in un alone di luce paradisiaca. Oh, Yes!
E veniamo alla tanto decantata performance scenica di Phoenix. L’attore è bravo e non lo si scopre certo oggi né con questo film, ma il punto è un altro: nemmeno un Laurence Olivier avrebbe potuto dare anima e psicologia a un fumetto. Tano meno un pur zelante Phenix. Il difetto sta nel manico, nella sceneggiatura. Come se un agricoltore pensasse di ottenere champagne da una piantagione di rape. Mission Impossible. Stesso discorso per la musica. Nessuno disconosce la bravura della violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir, ma sicuramente qui ha lavorato a tavolino e senza alcun rapporto con l’immagine. Risultato? Una colonna sonora fastidiosa, straripante e posticcia. Alla fine cosa resta? Un consiglio. Se proprio vi intriga una storia americana con un figlio pazzoide, una madre possessiva e tanto spargimento di sangue, andatevi a rivedere il film di dieci anni fa di Werner Herzog My Son, My Son, What Have Ye Done. Quello è cinema e quella è una lezione di stile. Anche senza Leone d’Oro.
E allora perché vederlo?
Per capire come mai il Trump de noantri (Matteo Salvini) è al 30% nei sondaggi.