Sergio Leone, il cantore del West, un cineasta che ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema
Il giorno di ferragosto del 1964 esce in un cinema fiorentino il film Per un pugno di dollari diretto da un regista sconosciuto di nome Bob Robertson. Nel giro di pochi giorni la pellicola ottiene un successo inaspettato in tutte le sale dove viene programmato. È nato un nuovo genere, il western all’italiana e il suo autore è Sergio Leone che si firma con uno pseudonimo in omaggio a suo padre. Figlio d’arte, l’attrice del muto Bice Waleran e di Roberto Leone, in arte Roberto Roberti, grande cineasta emarginato durante il fascismo, Sergio Leone nasce a Roma il 3 gennaio 1929. Suo padre (classe 1879) appartiene una famiglia benestante e molto appassionato di teatro fino da ragazzo.
Sergio Leone, il padre e i primi passi nel cinema
Dopo aver recitato in vari compagnie teatrali assume lo pseudonimo di Roberto Roberti e nel 1911 entra il mondo del cinema prima come interprete e poi come regista. Nel 1914 sposa l’attrice Bice e alla fine della Prima Guerra mondiale viene assunto dalla casa di produzione Casaer Film con cui realizza la pellicola La piccola fonte e poi numerosi film che vedono protagonista la diva dell’epoca, Francesca Bertini. Quando il fascismo va al potere Roberti, che è contro ogni forma di autoritarismo, è costretto ad abbandonare il cinema. Torna dietro la macchina da presa solo nel 1941 con La bocca sulla strada e Il folle di Marechiaro (1952). Poi si ritira definitivamente nel 1949. Muore il 9 gennaio 1959.
Il figlio Sergio ama il cinema come il padre, ma ha dei gusti ben particolari nell’utilizzo della cinepresa. Metodico, esigente con i suoi collaboratori e molto bravo nel dirigere gli attori, il giovane Sergio Leone ha in mente un cinema epico e l’America rappresenta per lui un mondo nel quale narrare storie affascinanti. Dopo una lunga gavetta come assistente e aiuto regista in alcuni kolossal hollywoodiani girati a Cinecittà, nel 1959 subentra a Guido Brignone che muore ad una settimana dall’inizio delle riprese di Gli ultimi giorni di Pompei. Sergio, generosamente aiutato dai colleghi Sergio Corbucci, Duccio Tessari e Franco Giraldi, porta a termine il film.
Sergio Leone, il debutto alla regia
Nel 1961 debutta definitivamente dietro la cinepresa con Il colosso di Rodi, pellicola in cui emergono già alcune caratteristiche del suo cinema: le angolazioni originali, le panoramiche di 360 gradi, un montaggio spettacolare e uno stile del tutto personale. Il lungometraggio, una produzione di fantastoria al di sopra della media dei film di genere, ha un finale catastrofico che anticipa di fatto i grandi kolossal hollywoodiani degli anni Settanta. Protagonista della storia è l’enorme statua fatta costruire da Serse all’ingresso del porto di Rodi per impedire l’accesso alle navi greche.
Sergio Leone dopo questa esperienza, convinto dall’attore Mimmo Palmara (è il cattivo nei film dedicati al personaggio di Ercole), pensa a un nuovo progetto, la rivisitazione del genere western che ad Hollywood è in declino e che solo in Germania si produce ancora spendendo pochissimi soldi. Sergio Leone decide di ispirarsi al film La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa per realizzare il suo primo western che si chiamerà Per un pugno di dollari a basso costo (120 milioni di lire) aiutato dall’amico Duccio Tessari, utilizzando i cavalli, i cascatori e perfino le armi di Le pistole non discutono, una produzione italo-spagnola e tedesca di Mario Caiano.
“Per un pugno di dollari”
I produttori giapponesi gli intenteranno causa al regista vincendola e ottenendo i diritti di distribuzione in Giappone, Formosa e Corea del sud e il 15 per cento dei profitti nel resto del mondo. La storia di svolge in una piccola cittadina del West nella quale due famiglie si contendono il potere. L’arrivo di un misterioso pistolero metterà scompiglio nel paese. “Non era un grande film-afferma il regista nel ricordare La sfida del samurai – Kurosawa si era ispirato a sua volta da Red Harvest (Piombo e sangue) di Dashiell Hammett, ma poi mi sono reso conto che la matrice vera era il Goldoni di Arlecchino servitore di due padroni non dimenticando gli eroi dei poemi omerici dell’Iliade come Ettore, Achille, Aiace.
Per un pugno di dollari, che a Roma non trova inizialmente un esercente disposto a rischiare, incassa nel 1964/65 3 miliardi e 182 milioni. É il trionfo di Sergio Leone anche se dovrà affrontare una causa intestatagli dai produttori giapponesi per essersi ispirato a La sfida del samurai. I legali del regista Kirosawa la vinceranno ottenendo i diritti di distribuzione in Giappone, Formosa e Corea del sud e il 15 per cento dei profitti nel resto del mondo.
Segue nel 1965 Per qualche dollaro in più, storia di due pistoleri, Il Monco e un ex colonnello di nome Martinez, alla caccia di un bandito messicano, la cui taglia fa gola a molti. Il film conferma il successo del regista romano in Europa, ma anche in America dove tra i primi ad accorgersi del suo talento è Martin Scorsese che è affascinato dall’innovazione del linguaggio cinematografico contenuto nella pellicola. Nel 1966 la cosiddetta “trilogia del dollaro” di Sergio Leone termina con Il buono, il brutto, il cattivo ambientato durante la guerra di Secessione. Leone vuole al suo fianco per la sceneggiatura due grandi scrittori di cinema come Age e Scarpelli. Protagonisti del film sono tre pistoleri che si contendono un tesoro nascosto in un cimitero, mentre infuriano battaglie sanguinose, campi di concentramento e sparatorie. Tutto si risolverà in un emozionante regolamento di conti finale.
Il western per Sergio Leone
Nel 1968, su soggetto e sceneggiatura di Bernardo Bertolucci e Dario Argento, il regista firma C’era una volta il West, uno dei suoi western più ambiziosi e un omaggio agli stereotipi del genere, che si configura anche come una grande epopea della frontiera americana. Al centro della vicenda è un meticcio impegnato nell’ inseguimento del capo di una banda al servizio della Union Pacific durante la costruzione dell’imponente ferrovia realizzata per unire il continente nordamericano da costa a costa.
Il film è girato nella Monument Valley, luogo caro al grande John Ford e interpretato da Henry Fonda, Charles Bronson, Claudia Cardinale, Jason Robards, Woody Strode, Jack Elam e Frank Wolff. Nel 1971 Sergio Leone, il cui merito è anche quello di aver lanciato o rilanciato Clint Eastwood, Charles Bronson, Lee Van Cleef, Gianmaria Volontè, James Coburn, porta a termine un’opera innovativa, Giù la testa, caratterizzata da primi piani arditi, da silenzi, dalle belle musiche di Ennio Morricone e dal montaggio di Nino Baragli.
La vicenda ruota attorno a Miranda (Rod Steiger), un bandito messicano che combatte casualmente dalla parte di Villa e Zapata contro la dittatura al potere. Per rappresaglia il sanguinario colonnello Reza gli uccide i figli. Aiutato da un avventuriero irlandese (James Coburn), egli tenterà di vendicarsi dei suoi nemici, abbracciando la causa rivoluzionaria e combattendo a fianco del suo popolo. Nel 1984 è la volta di C’era una volta in America, l’ascesa e il declino di due gangster ebrei di New York amici per la pelle. Il grande affresco sulla società e sul cinema americano dura circa quattro ore ed è sostenuto dalla memorabile colonna sonora scritta ancora da Ennio Morricone. Il film, che si avvale della straordinaria interpretazione di Robert De Niro e di James Woods, inizia durante il proibizionismo e finisce alla fine degli anni Sessanta. Sergio Leone per l’occasione fa ricostruire a Cinecittà una riproduzione del Lower East Side di New York dove si svolge questa storia di intere generazioni di gangster.
Sergio Leone e Robert De Niro
Il suo rapporto con Robert De Niro è fino dalle prime battute perfetto. “É un attore di pura marca Actor’s Studio-racconta il regista nel libro di Oreste De Fornari All about Sergio Leone-Si identifica totalmente col suo personaggio, lo vive al mille per cento. Quando faceva il vecchio, era un vecchio che alla sera saliva in macchina per andare a casa”. La pellicola rappresenta purtroppo il commiato del regista che muore improvvisamente il 30 aprile 1989, mentre insieme alla moglie sta guardando un film in televisione, alla vigilia del suo viaggio negli Usa per ottenere dai produttori americani finanziamenti necessari alla sua nuova avventura produttiva e registica dedicata all’assedio di Leningrado durante la seconda guerra mondiale.
Questo kolossal, voluto fortemente dalle autorità sovietiche, racconta l’eroismo dei cittadini di Leningrado che resistettero alle truppe tedesche che più di due anni e mezzo. Il progetto verrà poi rilevato prima dal regista russo Sergej Bundarcuk e poi dal nostro Giuseppe Tornatore, ma entrambi saranno costretti a rinunciarvi.
Sergio Leone, il cantore del West, un cineasta che ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, non ha però avuto vita facile all’inizio della sua carriera. “Non amo l’ipocrisia dei necrologico – scrive il critico Tullio Kezich sul Corriere della Sera del 1 maggio 1989, in occasione della sua improvvisa scomparsa -. Mentirei se dicessi che i rapporti della mia generazione con l’opera di Leone, furono sempre idilliaci. Quando il nuovo astro spuntò nel firmamento di un finto Far West a noi critici parve che questo sedicente Robertson arrivando dalla gavetta con sottobraccio una scopiazzatura da La sfida del samurai di Kurosawa, fosse un incolto manipolatore di culture diverse assoldato per assassinare a pagamento il genere più amato del cinema. In realtà Leone incarnò nei modi di una messinscena affettata e violenta, ma anche indugiante a lunghe pause contemplative e a inattesi contrappunti di parolacce, l’antistoricismo giovanottista che c’era nell’aria e avrebbe nutrito i moti del ’68 e oltre. Ma quel western classico che a noi pareva minacciato dalla protervia leonina era già moribondo, stremato dalle troppe repliche; e per il poco che ancora visse ci fece la sorpresa di riadattarsi sul modello forte dello “Spaghetti western”.
Dario Argento nell’affettuoso ricordo scritto su l’Unità sempre in occasione della sua scomparsa afferma: “Il suo fare film, spavaldo e provocatore, ironico, mi faceva venire i brividi. E il suo parlare di cinema, quel cinema in cui un’inquadratura è tutto, e il carrello e il dolly danno dimensioni e significati al racconto. La mia consuetudine con lui (lavorai alla sceneggiatura di C’era una volta il West) mi fece capire che sarebbe stato possibile fare questo lavoro. Così lui ti raccontava i suoi movimenti di macchina, l’espressione degli attori, gli umori, il canto degli uccelli, un fischio. Con lui non è andata via una figura del cinema italiano, ma del cinema semplicemente, perché lui era un passo più in alto, lui vedeva sempre in grande e lontano, vedeva l’America, la Cina, la Russia. Peccato era giovane e stava per realizzare un’impresa, la battaglia di Leningrado, che gli era costata anni di fatiche. Poteva fare ancora tanti film per tanti altri anni…”.
I figli di Sergio Leone, Raffaella e Andrea
Due dei tre figli di Sergio Leone, Raffaella (nata nel 1961) e Andrea (nato nel 1967), presidente della Leone Film Group, hanno seguito le orme del padre come produttori cinematografici e ne mantengono vivo il ricordo.
“Mio padre – racconta Raffaella in un’intervista del 1999 a la Repubblica a dieci anni dalla sua scomparsa-era un gran chiacchierone, un affabulatore. Una presenza costante e imprescindibile della nostra vita. Io e i miei fratelli finivamo prima le scuole per trasferirci in Spagna dove papà spesso girava. Partivamo sempre insieme. Lui vedeva tutto tradotto in fotogrammi, era una storia per immagini continua. Le riunioni di lavoro avvenivano intorno a un tavolo da pranzo, in mezzo agli amici e a tanti bambini. Mia madre funzionava da “apri pista”: era lei che leggeva per prima il romanzo, il racconto che aveva interessato mio padre. Poi dava il suo giudizio e allora papà affondava nella lettura e poi la condivideva con tutti noi. Prima io che ero la più grande: il sistema era quello della catena di montaggio. Un vero divertimento!”.
Sono passati 36 anni dalla sua morte, ma Sergio Leone rimane un autore inimitabile cui molti devo tutto. “Clint Eastwood-scrive Maurizio Porro sul Corriere della Sera del 1 maggio 1989- uno degli attori che Leone creò dal nulla, per 15.000 dollari e con l’obbligo del sigaro, gli serba ancora riconoscenza, e così Peckinpah e Kubrick. Anche Carlo Verdone ricorda ancora con commozione il primo incontro con il regista che lo aveva notato in televisione. Il giovane comico romano si presenta un giorno al burbero Sergio portando con se solo una bozza di sceneggiatura, ma Leone decide di credere nel suo talento producendogli il suo primo film Un sacco bello. Un intuito che solo i grandi cineasti posseggono!