Antonioni e Vitti sono stati una coppia tra le più colte e originali del cinema italiano; siamo negli anni Sessanta, tra film sull’inquietudine e l’amore. Il regista e l’attrice, spesso, non furono compresi da pubblico e critica
Milano 1950. Paola, una ricca borghese (Lucia Bosè) insoddisfatta della sua vita lussuosa con Enrico, un marito molto più anziano di lei, ritrova Guido, l’ex fidanzato povero (Massimo Girotti) che aveva amato a Ferrara; un amore contrastato dalla fidanzata dell’uomo, morta in uno strano incidente in ascensore. Tra i due scoppia una passione travolgente che dà nuovo slancio alla vita di Paola, ma anche propositi omicidi per liberarsi dell’ingombrante coniuge. Tutto girato nella metropoli lombarda, in piena rinascita, tra le macerie della guerra, “Cronaca di un amore” diretto da Michelangelo Antonioni, ex documentarista di talento, è considerato una sorta di canto del cigno del neorealismo. Una storia criminale che rivelava l’interesse di Antonioni per il romanzo nero – quello di James M. Cain in primo luogo -, ma anche una storia psicologica le cui risonanze culturali andavano da Flaubert a Pavese. Il legame tra l’opera di Antonioni e quella di Cesare Pavese si chiarirà negli anni successivi (nel 1955 arrivò ad adattare “Le amiche”), e durerà per tutta la sua vita, tanto, che nel 1973, Antonioni dichiarerà a un giornalista: “La differenza tra Pavese e me è che lui si è suicidato e io no” (Roma Gubern- “Il cinema oggi 1977” – Istituto Geografico De Agostini Novara. A questo link per acquistare il libro).
Nato a Ferrara nel 1912 Antonioni, grande tennista che ama la letteratura e il cinema, studia svogliatamente all’Università di Bologna Economia e Commercio e nel frattempo collabora con le pagine letterarie del Corriere Padano. Dopo essersi trasferito a Roma, scrive per la rivista di Vittorio Mussolini “Cinema” e inizia a lavorare come sceneggiatore e aiuto regista, frequentando anche il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1942, nonostante la guerra in corso, parte per la Francia per lavorare con il grande cineasta Marcel Carné nel film “Les visiteurs du soir (L’amore e il diavolo)”. L’anno dopo torna a Ferrara e gira il documentario “Gente del Po”, che dimostra il suo talento per raccontare con le immagini il paesaggio. Lavora inoltre alla sceneggiatura di “I due Foscari” di Enrico Fulchignoni e “Un pilota ritorna” di Roberto Rossellini. Nel dopoguerra è attivo sempre come sceneggiatore e gira il suo secondo documentario “N.U. Nettezza urbana“. Dopo il suo primo lungometraggio, “Cronaca di un amore“ (1950), è la volta nel 1952 di “I vinti”, un film a episodi sulla crisi dei giovani in Europa, caratterizzato da una difficile gestazione, anche per problemi di censura. L’opera è composta da tre episodi ambientati in Italia, Inghilterra e Francia, che ruotano intorno al malessere giovanile.

Segue nel ’53 “La signora senza camelie”, incentrato sulla decadenza di una star del cinema e l’episodio “Tentato suicidio” del film collettivo “L’amore in città” (1953). Il suo modo in interpretare il cinema diventa sempre più personale e originale (la sua capacità di muovere la cinepresa è del tutto particolare). Nel ’57 “Il grido”, storia dell’alienazione di un operaio che abbandona la sua coscienza di classe, è interpretato da Alida Valli, Steve Cochran e Dorian Gray. Quest’ultima, al secolo Maria Luisa Mangini, viene doppiata dalla giovane attrice Monica Vitti.
Il rapporto sentimentale (e culturale) tra Antonioni e Vitti
Tra Michelangelo e Monica nasce sul set un grande amore, ma anche un rapporto culturalmente molto intenso. Il regista cercava per la voce del personaggio di una benzinaia qualcosa di diverso. “Una voce particolare, sgranata, roca che vive all’aria aperta – racconta la Vitti in un’intervista a “La Repubblica” del 14 agosto 1981 a Maria Pia Fusco – E la mia voce, che in Accademia mi aveva creato difficoltà perché il prototipo a cui bisognava attenersi assolutamente tutti, uomini e donne, era Gassman, ad Antonioni sembrò l’ideale. E poi vide anche me, la mia nuca, la mia faccia. Disse: ‘È la faccia giusta, la faccia che serve per le mie storie’. E queste storie sono nate dalla nostra vita, da lui e da me. Non è che avesse scritto “L’avventura” e io gliel’ho interpretata. Tutto cominciò insieme”.
Monica Vitti all’epoca pensava di essere assolutamente sbagliata per il cinema di quegli anni. “Ero bionda, alta, secca, il seno non l’avevo, avevo la vita larga e questa voce qui. Era sbagliato il mio naso, la mia faccia non era italiana: fisicamente ero un personaggio che non corrispondeva a nessun canone di allora. Allora -erano gli anni ’50 – il cinema era fatto dagli autori, dai registi. Gli attori erano gente presa dalla strada, oppure quelle bellissime creature superdotate, che poi venivano doppiate. Quando facevo qualche provino, dicevano:”Sì come attrice è brava, ma insomma…”.
Eppure Monica Vitti, che in realtà si chiama Maria Luisa Ceciarelli (dal cognome della madre Vittiglia e dal nome di un personaggio di un romanzo), nata a Roma nel 1931, per andare a studiare recitazione in Accademia deve scontrarsi duramente con la mamma, una donna intelligente che, però, vuole per lei una vita “normale”. Ma l’impegno di Monica per diventare attrice è intenso e responsabile. Partecipa a tutte le lezioni di storia del teatro e legge un testo al giorno con grande impegno. “Michelangelo – racconta la Vitti -cominciò a guardarmi, quella che ero, ad ascoltare quello che raccontavo. Mi guardava vivere, parlare, sempre. Da un viaggio che facemmo su un’isola venne fuori l’idea de “L’avventura”. E cominciò l’avventura incredibile per fare il film, le difficoltà pazzesche, su cui si è scritto molto. Già che lui non ha mai avuto un film fatto facilmente, mai”.

Antonioni mette al centro del suo universo cinematografico la donna che si contrappone alla debolezza, alla viltà e all’alienazione dell’uomo. Nella sua trilogia, “L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse”, indaga sulla difficile condizione della coppia e dei rapporti d’amore e di vita dentro la società borghese degli anni Sessanta, dominata da una frenetica evoluzione tecnologica. Una ricerca, quella condotta da Antonioni, con uno stile impeccabile sull’animo umano spesso travagliato da paure e nevrosi tipiche di una società più arida e disumanizzata. Ne “L’avventura” (1959) Sandro e Claudia cercano un’amica misteriosamente scomparsa; tra loro nasce l’amore che verrà messo in discussione dal comportamento dell’uomo e dall’incapacità di comunicare.
“Quando cominciò a parlare de “L’avventura” – racconta ancora Monica Vitti – con la storia della ragazza scomparsa, i produttori non capivano, si spaventavano. Qualcuno disse: ‘Se la ragazza si ritrova, si fa il film; se non si ritrova, non si fa il film’. E invece il film era tutto lì. Finalmente alla fine dell’estate del ’58, partimmo per Panarea, che allora era ancora deserta, popolata soprattutto di vecchi, bambini, donne sole, le vedove bianche dei mariti emigrati. Il cibo era scarso, rozzo. Per comunicare con la terra ferma, c’era una specie di ponte radio, anzi un residuato di guerra, installato in una stanzetta e alimentato da un motore a benzina. Quando finiva la benzina non si comunicava più. I macchinisti la chiamarono subito ‘La Cayenna’ Per me era la felicità. Per quello che mi riguardava come attrice, l’unica cosa che mi interessava era la sincerità. Lui diceva che quelle storie senza la mia faccia, così vera, non le avrebbe seguite nessuno. Io non volevo deluderlo, assolutamente, dovevo raggiungere una pulizia estrema, non dovevo ricordarmi la tecnica, non doveva esistere più il teatro, tutto il resto. Esisteva soltanto uno stato d’animo. E, tutto era spontaneo, non c’era costruzione dal di fuori. Michelangelo non doveva dirmi ‘Adesso ti spiego chi è questa’, no, perché per metà ero io…”.
La lavorazione del film, faticosa e difficile, dura cinque mesi, ma poi i soldi cominciano a non arrivare più e per due giorni interi la troupe rimane isolata sullo scoglio di Lisca Bianca senza mangiare e con un freddo notevole. Antonioni per nulla scoraggiato, fa filmare anche una tromba marina che contribuisce a creare un’atmosfera sconvolgente. “L’avventura” arriva al festival di Cannes e Monica Vitti rimane stupefatta dai manifesti del film con i capelli al vento, tutta spettinata e senza trucco e con la gente fortemente colpita da quella faccia nuova e autentica. Il film viene, però, fischiato dal pubblico, ma vince il Premio della Giuria. “Si inaugurò così la cosiddetta ‘tetralogia dell’incomunicabilità’ -come afferma Emanuela Martini – cioè i quattro film attraverso i quali Antonioni esplorava malesseri personali e dilemmi sociali ben lontani da quelli sviluppati dal neorealismo e dai suoi postumi. L’Italia era cambiata e il suo cinema con lei, raccontando una borghesia angustiata e sofferente di mali oscuri quanto irresolubili. Silenzi, sguardi indecifrabili, un paesaggio (urbano, insulare o industriale) enigmatico. Anche le donne stavano cambiando e Monica Vitti fu il corpo e il volto nostrano di quel mutamento, com’era già per esempio Jeanne Moreau in Francia e Ingrid Thulin in Svezia con Ingmar Bergman: una donna moderna”. Grazie a questo film l’attrice è ambita da altri registi e produttori. “Ebbi subito proposte di lavoro, altri film normali, soldi. Ma io non potevo che rifiutare tutto. Allora pensavo di non poter fare niente che fosse al di fuori del suo mondo e del mio, delle nostre storie, del nostro cinema che nasceva dalla nostra vita”.
Nel 1961 il regista ferrarese gira “La notte”, ancora uno specchio esistenziale che percorre tutta la società italiana neocapitalista degli anni Cinquanta e Sessanta. Nasce il termine incomunicabilità, una parola destinata a entrare nel linguaggio comune dell’epoca che mette a fuoco in particolare il rapporto uomo-donna. Questo nuovo film di Antonioni descrive la giornata di Giovanni, un famoso scrittore e di sua moglie Lidia (Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau), quando ormai l’amore tra loro se ne sta andando sostituito dalla routine della vita. La Vitti interpreta Valentina, figlia dell’industriale Gherardini, proprietario di una lussuosa villa con parco in campagna, una ragazza colta e quasi estranea al lussuoso mondo nel quale vive, che fa affascinare Giovanni.
“L’eclisse”, il film che apre un dibattito tra i critici e gli intellettuali
Nel 1962 con “L’eclisse” Antonioni continua il suo discorso sull’inquietudine esistenziale della società borghese degli anni Sessanta. I due giovani protagonisti (Alain Delon e Monica Vitti), una coppia di innamorati, rinunciano all’amore per la fragilità dei loro sentimenti.
“Il regista – scrive Ugo Casiraghi su l’”Unità” del 13 aprile 1962, in occasione dell’uscita di “L’eclisse” – con maggior forza simbolica e maggior capacità di sintesi che nell’Avventura e nella Notte, ha nuovamente centrato la crisi dell’uomo nel mondo borghese. La protagonista è una giovane donna, Vittoria (Vitti), che all’inizio ha abbandonato un uomo, Riccardo (Rabal), un intellettuale di sinistra col quale è vissuta per diversi anni, in un appartamento pieno di libri e di quadri astratti, e che alla fine sta tentando invano di unire la propria solitudine a quella di un altro uomo, Piero (Delon), un procuratore di Borsa dinamico ed estroverso, ossia l’esatto contrario del primo. Ciò che ad Antonioni soprattutto interessa è l’intervallo, l’attesa tra le due storie. Per questo sfuma le ragioni del fallimento della prima, e non si pronuncia su un avvenire della seconda. Come l’eclisse è un oscuramento del sole, così l’uomo d’oggi è vittima di un oscuramento della coscienza, di un’indecisione continua sulla propria vita…
Il regista non aveva mai fatto nulla di così potente, come le scene che riguardano la Borsa. Nella pigra, indolente, deserta estate romana, questo quadro allucinante esplode con la violenza di un tornado. La deformazione che nell’uomo produce la febbre del denaro è tutta qui, nella follia dei titoli che salgono e scendono, negli scamiciati urlanti con gli occhi fissi ai registratori meccanici, nei telefoni presi d’assalto, e in quella ressa di egoismi e di delusioni, sulla quale il minuto di silenzio per un morto piomba come una pausa sforzata, un romanticismo d’altri tempi. Ma è assai più lugubre l’urlo della suoneria, che ridà l’avvio alla baraonda”.
Per Monica Vitti “L’eclisse” è stata forse l’esperienza più dolorosa. Quella donna non mi somigliava. Dover rinunciare alla passione, ai sentimenti, dover riconoscere la fragilità di tutto… C’è il finale in cui lei rinuncia all’appuntamento con Delon. Mi ribellavo con Michelangelo. Io nella vita sono esattamente l’opposto. Io non solo vado all’appuntamento, ma faccio il finimondo per andare dietro alle passioni, alle emozioni, ai sentimenti. Non volevo accettare questa fragilità. Anche perché le storie si intrecciano sempre con la nostra vita e per me significava anche che finiva l’amore. Era durissimo, non volevo. Invece Michelangelo diceva che bisognava accettarlo da subito. Finisce l’amore, diceva, anzi, a volte non comincia nemmeno, c’è solo la paura dell’amore e la sua fragilità. In quel periodo andavo sul set con tutta la mia angoscia dentro, ma continuavo a scherzare, a ridere con quelli della troupe. Ne avevo bisogno, ho sempre avuto bisogno di questi rapporti”.
Nel 1964 Antonioni firma “Deserto rosso”, una pellicola a colori girata a Ravenna che mostra il rapporto dell’uomo occidentale con il mondo industriale. Protagonista è Giuliana, una donna nevrotica, dalle tendenze suicide, che non si realizza né come moglie né come madre. “Che bellissimo film – è sempre la Vitti a ricordare – Non so tra ‘L’avventura’ e ‘Deserto rosso’ quale amo di più. Con tutte le strade dipinte, tutte le critiche e i pettegolezzi dell’ambiente! Che meraviglia! Anche lì, nel personaggio di Giuliana, io ci sono, con tutta la depressione profonda che avevo in quel periodo. C’era questa ricerca continua di contatto con le cose. Mi hanno sempre preso in giro, perché in “Deserto rosso” e negli altri film io toccavo i muri. Ma io ho un rapporto con gli oggetti, con le cose, assolutamente fisico. Ho bisogno di toccare tutto, anche i muri. Forse perché ci vedo poco. O forse perché ho bisogno della materia”.

I film sull’incomunicabilità di Antonioni provocano uno scossone sul cinema contemporaneo aprendo la strada a nuove prospettive, a un cinema più profondo anticipando tematiche che sarebbero poi state sviluppate dai cineasti degli anni Sessanta e Settanta. Tutto questo nonostante che per il pubblico più popolare, quello che frequenta le sale con assiduità, non è facile entrare nel mondo cinematografico di Michelangelo. Forse perché i tempi in Italia non sono ancora maturi per apprezzare opere così introspettive.
“Quando la gente – confessa ancora Monica Vitti – veniva a parlarci, scoprendovi dentro qualcosa, dicevamo: ”Allora è servito a qualcuno, allora se ne sono accorti. Purtroppo succedeva di più all’estero. Qui eravamo due isolati, due pazzi. Eravamo ridicolizzati dagli stessi che poi hanno esaltato il cinema di Michelangelo. Vedevamo pochissima gente e spesso ci accettavano con ironia, con battute tremende. In un cinema nel quale si parlava di donne come madri, moglie, sciocche o mignotte, noi le raccontavamo, invece, attraverso me… In quei film sono un po’ la stessa. Se non altro per il fatto che una donna è una donna che, consapevolmente, non vuole capire, che però vuole essere, in qualche modo. Com’era lontana dai film di allora…per me ritrovarla, rivedendo i film, è un’esperienza meravigliosa e dolorosa insieme. Perché sono momenti, pezzi di vita, che sono lì, miei”.
La fine della storia d’amore tra Antonioni e Vitti
Durante la lavorazione di “Deserto Rosso”, il rapporto tra Michelangelo e Monica entra in crisi e il loro legame si esaurisce, ma rimarranno però legati da profonda e affettuosa amicizia per tutta la vita. Nel 1980 Antonioni vuole nuovamente Monica, nel frattempo diventata una delle attrici più significative della commedia all’italiana, sul set con lui per una nuova impresa. Si tratta del film “Il mistero di Oberwald”, che mette insieme il cinema e l’elettronica aprendo nuove strade all’industria filmica. Il quindicesimo lungometraggio del regista ferrarese viene girato in video e poi riversato su pellicola. Il 20 dicembre 1985 il regista viene colpito da un ictus che lo priva quasi completamente dell’uso della parola e lo lascia paralizzato dal lato destro. Questa menomazione non impedirà ad Antonioni di proseguire la sua attività cinematografica anche se stare sul set sarà per lui molto faticoso. Il 31 luglio 2007 a 94 anni muore a Roma poche ore dopo la scomparsa di un altro grande maestro del cinema, Ingmar Bergman.
Monica Vitti continua la sua carriera di attrice brillante nel cinema fino al 1990, quando debutta alla regia con il lungometraggio “Scandalo segreto”, mentre due anni dopo è l’interprete principale della miniserie Tv “Ma tu mi vuoi bene?” accanto a Johnny Dorelli. Michelangelo Antonioni e Monica Vitti si incontreranno per l’ultima volta al funerale di Marcello Mastroianni a Roma il 22 dicembre 1996. In seguito, a causa di una malattia degenerativa, l’attrice si ritira definitivamente dalle scene e il 2 febbraio 2002, tre mesi dopo aver compiuto 90 anni, ci lascia.
Ma la coppia più colta e originale del cinema italiano non sarà mai dimenticata…
