titolo orig. Cafarnäum sceneggiatura Nadine Labaki, Jihad Hojeily, Michelle Kesrouani cast Zain al-Rafeea (Zain) Yordanos Shiferaw (Rahil) Kawthar al-Haddad (Souad) Fadi Kamel Youssef (Selim) Cedra Izam (Sahar) Alaa Chouchnieh (Aspro) Boluwatife Treasure Bankole (Yonas) Nadine Labaki (Nadine) genere drammatico prod Libano 2017 durata 123 min.
Era la Svizzera del Medio Oriente. Poi c’è stata la guerra civile, i profughi palestinesi, i massacri di Sabra e Chatila e adesso i rifugiati siriani, che si contano a milioni. È il Libano. Unico stato arabo a maggioranza cristiana e tra i pochi della regione a reggersi su un sistema democratico. Paese anche turistico, nonostante tutto, e con condizioni di vita non distanti da quelle europee. Cinematograficamente parlando, inoltre, il Libano ha dato di recente film più che interessanti, come il recente L’insulto (2017) di Ziad Doueiri, centrato, guarda caso, proprio sulla “questione palestinese”.
Il film di Nadine Labaki ha qualche debito di riconoscenza verso quello di Doueiri, a partire dalla cornice giudiziaria in cui si inquadra la storia e dal ricorso ai flash back per dipanare la matassa narrativa. Il quadro è però totalmente diverso anche perché qui, protagonisti non sono gli adulti, ma i bambini. Uno, in particolare: Zain, profugo siriano che, con la famiglia, sopravvive a stento negli slum di Beirut, l’altra faccia della capitale. Quella che vive in tuguri sotto i viadotti autostradali o in fatiscenti baracche di legno e lamiera. La città dei “sans papiers”, degli invisibili, dei paria. Dove è normale che una bambina di 11 anni venga data in matrimonio a un uomo di 30 perché così c’è una bocca in meno da sfamare e un parente acquisito con i soldi. Ma Zain è un ribelle. Ribelle per natura, forse, ma, soprattutto, per scelta. Con l’ingenuità dei suoi 12 anni e la terribile consapevolezza di non avere un futuro. Caos e miracoli è il sottotitolo del film, ma di caos ce n’è tanto, di miracoli nessuno. Se non il miracolo dell’istinto di sopravvivenza che ogni essere umano ha in sé e i più giovani in particolare. Una discesa agli inferi senza remissione né possibilità di uscita. Dove la cosa più normale è che un ragazzino faccia causa ai suoi genitori per averlo messo al mondo e chieda, come pena per i “rei” che non “reiterino il reato” ossia non mettano al mondo altri infelici. La regista si muove bene in questo terreno narrativo molto scivoloso, a rischio di retorica o piagnisteo, scansando accuratamente l’una e l’altro. Aiutata in questo dallo sguardo comunque innocente dei suoi protagonisti: bambini cresciuti troppo in fretta, ma pur sempre bambini e dunque “colpevoli d’innocenza”. Non a caspo l’unica volta in tutto il film in cui Zain sorride è nella breve sequenza finale in cui la voce fuori campo di un fotografo gli dice umoristicamente che non sta posando per “La foto del funerale, ma per la carta d’identità”. Sintesi perfetta dei 120 minuti precedenti.
E allora perché vederlo?
Perché aprire gli occhi su una realtà che ignoriamo può solo fare bene.
SCELTI PER VOI