Anita B
regia: Roberto Faenza, cast: Eline Powell (Anita), Robert Sheehan (Eli), Andrea Osvart (Monika), Antonio Cupo (Aaron), Nico Mirallegro (David), Jane Alexander (Sara), Moni Ovadia (Jacob), Clive Riche (medico), Guenda Goria (pianista), durata: 88′
Un film sull’olocausto che non parla dell’olocausto, ma della memoria dell’olocausto. È questa la scelta stilistica di Roberto Faenza per il suo film tratto dal romanzo Quanta stella c’è nel cielo (Garzanti) di Edith Bruck. E non potrebbe essere diversamente in quanto la protagonista è una ragazzina scampata ai campi di sterminio. Siamo nella Cecoslovacchia dell’immediato dopoguerra, nella regione dei Sudeti, e Anita, unica superstite della sua famiglia, trova riparo (e lavoro come baby sitter) nella casa della zia Monika. In famiglia lei è l’unica che si ostina a voler ricordare l’immane tragedia appena conclusa mentre tutti preferiscono far finta che nulla sia successo. La caparbietà della giovane accompagna anche il suo ingresso nell’età adulta e le prime, non felici, esperienze amorose. Il finale è un po’ scontato e sin troppo consolatorio, ma la parte migliore del film trova la sua base nell’intreccio, quasi nel groviglio, di sentimenti che accompagnano Anita nella ricerca della sua strada, di una sua verità che stride, a volte molto aspramente, con quella degli altri. Ottimo il cast con Eline Powell matura e credibile in un ruolo difficile e un eccezionale Moni Ovadia (con la sua Stage Orchestra) in un ruolo secondario, ma determinante. Su un argomento analogo Roberto Faenza aveva girato nel 1993 Jona che visse nella balena.
VIDEOTECA Le stelle (di David) sullo schermo
Nel suo film, Roberto Faenza inserisce alcune brevi sequenze del Grande dittatore di Charlie Chaplin. Nel 1940 il regista inglese era probabilmente l’unico uomo al mondo che potesse irridere Hitler, nel momento in cui il führer aveva sotto il proprio tallone l’intera Europa. Chaplin coglie il grottesco dell’ideologia nazifascista sfrondandola da tutto il suo lugubre apparato ideologico-militare. Il comico di professione coglie i tic e le nevrosi dei comici dilettanti Hitler e Mussolini e smaschera la loro natura di tragici clown a mano armata. Sempre attualissimo. Dopo questo film molti hanno creduto che Chaplin avesse antenati ebrei. Non è così: semplicemente il genio non ha razza.
Il finale di Anita B richiama un’altra celebre pellicola: Exodus (1960) di Otto Preminger (lui sì, di origine ebraica), kolossal di oltre tre ore, molto retorico, ma decisamente ben confezionato e accattivante, grazie anche alla musica di Henry Mancini e al suo celebre leit motiv.
Scendendo “per li rami” di Hollywood si arriva ovviamente a Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg (anch’egli ebreo). Il film non è quel capolavoro che si disse a suo tempo. Si basa, infatti, sul semplice, banalissimo principio drammaturgico della lotta impari tra il Bene, rappresentato da un eroe solitario attorniato da pochi, deboli, piccoli amici, contro lo strapotere del Male, dilagante, eccessivo, ossessivo. I nazisti di Schindler’s List sono marionettie ingessate, senza spessore psicologico (ne sa qualcosa il povero Ralph Fiennes) e il risultato è tutt’altro che eccelso.
In Europa le cose sono andate un po’ meglio, nel senso che la cultura ebraica al cinema ha prodotto spesso autentici capolavori. Si comincia presto, nel 1920, con Il Golem di Paul Wegener, ambientato nel 1580, nel ghetto di Praga dai tetti aguzzi come i cappelli e le barbe dei rabbini. Il Golem è il Messia d’argilla creato perché salvi il popolo dalle persecuzioni, ma presto sfugge al controllo del suo artefice seminando il terrore. Verrà neutralizzato dall’innocenza di una bambina. Film di grande suggestione e ricco di significati simbolici.
Del 1987 è il delicato (e vagamente autobiografico) Arrivederci ragazzi di Louis Malle, ambientato in un collegio della Francia occupata, nel 1944.
La settima stanza (1995), dell’ungherese Marta Mészàros, ruota sulla figura di Edith Stein, ebrea, allieva del filosofo Husserl, convertita al cattolicesimo e suora carmelitana morta ad Auschwitz. Un itinerario di vita e di pensiero, il suo, che attraversa i 20 anni più tragici della storia tedesca. Il percorso di un’anima dalla conversione al martirio, alle sette stanze di Teresa d’Avila di cui l’ultima è la morte. Un film difficile e scomodo, che ha molto da dire, senza retorica e senza enfasi. Simile in questo a un altro film di una regista donna, molto più recente: In Darkness (2011) della polacca Agnieszka Holland. Film claustrofobico (è ambientato per intero nelle fogne di Leopoli, oggi Lviv, in Ucraina), crudo, a tratti violento, ma capace di rendere la normalità del male e l’eccezionalità di un bene “normale”, compiuto da persone comuni per il semplice sentimento di umana fratellanza. Più noto, ma meno intenso, Il pianista (2002) del suo connazionale Roman Polanski, generosamente premiato a Cannes con la Palma d’Oro.
Per quanto riguarda l’Italia, tutti sicuramente ricordano La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, capace (come Chaplin) di far sorridere sull’olocausto, ma non di creare un’opera immortale. Del suo film si ricorda, infatti, qualche gag indovinata, ma l’insieme è piuttosto frammentato e disomogeneo. Un film pochissimo noto, ma di straordinaria intensità, è invece Confortorio (1992) di Paolo Benvenuti. La storia narrata è vera, scovata negli archivi dello Stato Pontificio. Siamo a Roma, nel 1736, e due ebrei sono condannati alla forca per un reato comune. Nella notte precedente il supplizio, i frati dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato cercano con ogni mezzo di convertirli in base a questo aberrante sillogismo: chi sta per perdere la vita salvi almeno l’anima e siccome al di fuori della Chiesa Cattolica non c’è salvezza, ecco che i due devono abiurare la fede dei loro padri e convertirsi. Va da sé che essi non si piegano e muoiono da ebrei, ovvero da uomini liberi.
Condivido la recensione di Anita B. che ho visto quest’estate, presente il regista Roberto Faenza, a Castelnuovo Magra. Un film sull’olocausto che non parla dell’olocausto, ideale seguito del precedente Jona che visse nella balena, ottimi interpreti e bella fotografia. Una riflessione sugli orrori del secolo scorso senza eccessi di sentimentalismo e con un velo di speranza. Tra i film in tema a mio parere manca Mr.Klein (1976) di Joseph Losey che tratta il tema dell’indifferenza con rara efficacia.
Grazie Riccardo, anche del suggerimento sul film di Losey. cordialmente vp