“A torto o a ragione” (2001), il film di Istán Szabò
In una Berlino spettrale alla fine del 1945, tra cumuli di macerie, fame e sofferenza, gli Alleati sono impegnati nell’opera di ricostruzione della Germania post hitleriana, dando il via a un processo di denazificazione che dovrà ripristinare un sistema democratico. Il maggiore americano Steve Arnold (Harvey Keitel), un ufficiale mosso da forti sentimenti di giustizia, apre un procedimento giudiziario contro Wilhelm Furtwängler (Stellan Skarsgärd), celebre direttore d’orchestra accusato di collaborazionismo con il regime. Arnold, uomo dai metodi sbrigativi (la sua segretaria tedesca gli dirà di non trovare grandi differenze tra la sua maniera di interrogare i presunti colpevoli e i metodi inquisitori dei nazisti) nella vita civile è un piccolo assicuratore che non capisce nulla di musica, salvo amare i dischi di Glenn Miller e il boogie boogie (“La sinfonia di Beethoven che preferisco – ironizza – è l’undicesima”). Inflessibile nei confronti del popolo tedesco che non ha mai sentito “l’odore di carne bruciata proveniente dai lager”, egli ingaggia una feroce battaglia verbale con il direttore d’orchestra, mentre un colonnello sovietico per conto di Stalin sta organizzando un trasferimento in Russia del musicista da esporre come un trofeo di guerra.
“Perché non se ne è andato dalla Germania?” lo incalza Arnold. “Sono tedesco – risponde lui – e volevo rimanere nella mia patria. È questa una colpa?”. Il film si apre dentro una chiesa maestosa con un imponente concerto, la Quinta Sinfonia di Beethoven diretta da Furtwängler, uno dei grandi sulla scena musicale in Germania e in Europa a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, mentre fuori infuriano i bombardamenti, e affronta il difficile rapporto tra gli intellettuali e il potere, un dilemma presente in ogni epoca. Utilizzando uno stile narrativo serratissimo e coraggioso (tutta l’azione è ambientata al presente senza quasi mai ricorre ai facili flash-back sul passato della Germania e dell’imputato), il regista ungherese Szabò, traendo il soggetto da una pièce teatrale intitolata “Taking Sides” (letteralmente “prendere partito, prendere posizione”), si sofferma sullo scontro tra due culture diverse, quella dello yankee implacabile, ma un po’ manichea, e quella solida, aristocratica, distaccata, priva però di responsabilità morali e politiche, del musicista. “Io sono un artista – grida sdegnato Furtwängler – e tutto il resto non conta”.
La soluzione del quesito morale la dovrà trovare lo spettatore, individuando il limite possibile tra la cultura e il potere. Il musicista più amato da Hitler nella realtà pagherà a caro prezzo la sua adesione al Terzo Reich. Salvato dal clima di restaurazione e dall’esplodere della guerra fredda, nel 1949 gli viene comunque impedito di recarsi negli Usa per dirigere stabilmente l’Orchestra Sinfonica di Chicago. Fino all’ultimo egli cercherà di dimostrare di aver salvato molti suoi colleghi ebrei dalla deportazione, prima della morte avvenuta nel 1954.
Ironia della sorte, lascerà al giovane collega e antagonista Herbert von Karajan, che detestava convinto che fosse stato la causa della sua mancata partenza per gli Usa, la carica di direttore della Filarmonica di Berlino. Alla fine della pellicola c’è un breve filmato del vero Furtwängler, mentre dirige un concerto in occasione del compleanno di Hitler, nel quale al termine dell’esecuzione stringe la mano a Goebbels per poi pulirsela con un fazzoletto. Un gesto che rende ancora più ambiguo il suo atteggiamento nei confronti del nazismo.