Ieri sono andata a trovare i miei suoceri, che sono ammalati da due settimane e hanno iniziato l’anno soli e derelitti, con febbre e tosse. Mi hanno fatto una grande tenerezza, perché per la prima volta li ho visti anziani, forse perché anch’io ormai ho i miei anni. Mi sono resa conto che ho circa l’età che avevano loro quando li ho conosciuti. Mi sono ricordata che allora loro dovevano occuparsi della madre ottantenne che li faceva disperare, mentre loro non fanno disperare me. Soprattutto mi sono ricordata di mia nonna, di quando andavamo insieme a fare la spesa, di quando lei non stava bene e la spesa gliela facevo io. Quando mi vedeva arrivare con le borse era come se stesse assistendo a un’apparizione mistica. Mi dava sempre la mancia e si scusava ogni volta per il tempo che mi faceva perdere. A volte andavo da lei solo per dovere, a volte pensavo davvero di essere una santa ad accudire la nonna, mentre i miei coetanei si facevano i fatti loro, a volte mi dispiacevo del tempo che mi faceva perdere. Ma le volte in cui sono stata con mia nonna sono state talmente tante che ho avuto l’occasione di divertirmi, con lei, di imparare tante cose, di ridere. Solo dopo che se n’è andata ho capito tutto questo, prima non ci avevo mai riflettuto. Quando penso a mia nonna Ida ho un solo grande rimpianto: il giorno in cui è morta avrei dovuto andarla a trovare, ma dovevo fare le pulizie di casa e l’avevo chiamata per dirle che sarei andata un altro giorno. Così ho perso l’occasione per salutarla un’ultima volta e ho capito che il concetto di perdita di tempo, quando si tratta di affetti e di persone che hanno sulle spalle tanti decenni, è tutto quanto da rivedere. Non so quante ore della mia vita – adesso che capisco meglio quanto valore abbia ogni ora – darei per poter passare ancora qualche minuto con mia nonna, a sorseggiare quello che lei chiamava cafù, cioè l’orrendo beverone di caffè solubile allungato con latte che adesso bevo da sola.
Ieri ho portato un po’ di spesa ai miei suoceri e, quando mi hanno vista, avevano la stessa espressione di tripudio di mia nonna. Mi hanno ringraziato una miriade e mezza di volte e, un paio d’ore dopo, si sono sentiti in dovere di chiamarmi per dirmi quant’era buono il pane che avevo comprato e quant’era sublime l’etto di prosciutto da me scelto. Solo in mia nonna trovo un paragone a tanta gratitudine, poiché evidentemente bisogna aver vissuto abbastanza anni per comprendere il valore del tempo che il prossimo ti dona. Ora a quanto pare ho abbastanza anni per capirlo, e mi dispiace per il tempo che ho negato a chi lo meritava per dedicarlo a cose sciocche e senza futuro, a passatempi senza prospettiva. Accudire questi vecchietti (che poi tanto vecchietti non sono) mi dà prospettiva, come me la dava stare con la nonna Ida. Ho dovuto vivere per mezzo secolo per finalmente intuire che ogni volta che si getta un ponte verso il passato non è detto che si faccia un’operazione inutile o si sprechi tempo, ma si può scoprire che al di là di esso c’è una strada per comprendere qualcosa che ci sfuggiva, per diventare più saggi. Per il futuro.
Ho letto naturalmente anch’io questo contributo di Clementina Coppini, di cui apprezzo da sempre la lucidità mentale e la raffinatezza di cuore. Mi sono commossa, perchè essere senior è proprio anche questo: assaporare il senso del tempo, il valore degli affetti, lo scambio di significati. La mia nonna si chiamava Teresa e non Ida e i ricordi che la riguardano sono diversi da quelli di Clementina, tuttavia ho ritrovato in queste righe lo stesso fil rouge. E se il senso del tempo vi affascina, vorrei suggerirvi la mostra O’clock, alla Triennale di Milano, dove si può scoprire che la misura del tempo non è data da cronometri e altri orologi, ma dalla mente e dal cuore degli uomini. Buon tempo a tutti, cari amici. vp