Un mandriano che sa leggere e scrivere: questo era Angelo (‘Ngelu) Cremascoli, chiamato alle armi nel 1916. Era di Castelvisconti, paesino del cremonese. Era partito, sebbene nessuno sappia se avesse più o meno voglia di andare in guerra. Probabilmente meno, comunque non che avesse molta scelta. Era il mio bisnonno e l’ho conosciuto. Erano gli inizi degli anni Settanta e abitavamo in viale Abruzzi a Milano. La guerra era lontana. La seconda, intendo. Figuriamoci la prima, messa nel dimenticatoio perché considerata in fondo la meno peggio delle due. Nessuno ne parlava e nessuno era interessato alle memorie del Carso di un vecchietto. Lui stesso non aveva grande intenzione di fornire notizie su qualcosa che probabilmente gli pareva superato dai successivi orrori che avevano devastato la sua famiglia e la sua terra. Stava zitto. Ricordo che si divertiva moltissimo a bagnarmi il naso quando finiva prima di me, che avevo circa quattro anni, il piatto di pastina che era la nostra cena di bambino piccolo e di vecchio. Mi arrabbiavo perché non vincevo mai.
Solo quando sono diventata più grandicella ho notato le medaglie. Una di bronzo, una d’argento, una d’oro e una croce di guerra. Stavano in un quadretto appeso in un angolo del salotto di mia nonna, la madre di mia madre.
Mia nonna, anni dopo la morte del padre, mi raccontò una storia di guerra che aveva saputo per accenni vaghi. ‘Ngelu aveva trovato solo dopo molti anni la voglia (e forse la forza) di spiegare la ragione di quelle medaglie, arrivate in cascina forse per posta poco dopo la fine del conflitto e accettate senza pomposità, perché il mio bisnonno era in stalla a badare alle mucche, mica a casa ad aspettare riconoscimenti. Le ha avute da vivo, non alla memoria, proprio perché aveva fatto qualcosa di straordinario.
Chissà perché non gli piaceva raccontare il gesto eroico per cui gliele avevano conferite. Forse perché aveva visto ciò che non si dovrebbe vedere. ‘Ngelu si trovava sul Carso, in trincea. Era un fante, vestito in modo inadeguato, infreddolito, sporco, disperato. Durante uno dei soliti (solito quando ti trovi in certe situazioni assume un altro significato, ma ci si abitua a tutto) scontri, i nemici (altrettanto infreddoliti, sporchi, inadeguatamente abbigliati e disperati) hanno la meglio sugli italiani e riescono a sottrarre il tricolore. Lo portano nella loro trincea e quella sera, mentre bevono per riuscire a tollerare il dolore della guerra, per spregio ci fanno sopra la pipì mentre deridono gli italiani in modo sguaiato.
Il fante Cremascoli è stanco, ha visto i suoi compagni morire per tutto il giorno, non sa nemmeno perché si trova lì, ma non ce la fa più a sentire insulti che nemmeno capisce perché non sa il tedesco, ma sa che si tratta di offese. Aspetta che i crucchi si addormentino ubriachi, salta fuori dalla trincea, attraversa lo spazio orrendo che la separa da quella nemica e va diritto a riprendere la bandiera. E ci riesce. Quando gli austriaci se ne accorgono gli sparano alla schiena, ma non riescono a ucciderlo. Lo colpiscono alla mano destra, quella che tiene il pezzo di stoffa intriso di urina. Pur ferito Angelo lo riporta al suo posto, tra i suoi compagni. Il gesto farà presto il giro del fronte, restituendo un po’ di speranza a uomini che l’avevano persa. Il mio bisnonno nel 1919 è tornato ad allevare bovini non suoi ed è morto a Milano nel 1972, all’età di 86 anni, dopo aver dovuto abbandonare la sua terra, devastata e depredata dalla guerra successiva.
Non ha mai recuperato del tutto l’uso della mano destra, ma ha sempre fatto il suo dovere e lavorato come un mulo. Era un mandriano che amava guardare le stelle e ne conosceva il nome. Ha lasciato ben poco, oltre a quei quattro pezzetti di metallo, i quali hanno un valore inestimabile. Tutti noi suoi discendenti, che se osavamo versare una lacrima la nonna ci prendeva a ceffoni dicendo “così piangi per qualcosa”, ogni volta che guardiamo la bandiera italiana e sentiamo l’Inno di Mameli piangiamo: questa è la nostra più grande eredità.
Quel quadretto c’è ancora. Ci sarà sempre.