Sono chiusa in casa da cinque giorni. Da quando, suppongo per una stupida infreddatura presa in una mattinata di vento e pioggia, ho cominciato ad avvisare i sintomi di quella che in altri tempi avrei/avremmo chiamato inizio di influenza stagionale.
Ma questi sono tempi diversi, tempi nuovi. E il pensiero corre subito al virus, a come possa essersi installato nel mio corpo. Non so nel corpo, certo nella mente e nella psiche. Ho fatto appello al mio senso di responsabilità, non sono uscita, non ho più visto nessuno, non ho nemmeno fatto venire la colf al suo giorno stabilito. E suppongo che anche in quella difficoltà di respiro che a volte sentivo avesse messo un autorevole zampino la claustrofobia. E l’ansia. Non sono stata sola, come sto sempre, mi sono sentita sola: è diverso.
Avrei avuto tutto il tempo – e avrei fortemente desiderato – proporvi come lettura del mese qualcosa di diverso, di più rilassante, per esempio di proporvi come pensare intensamente, visivamente, persino olfattivamente, alla bellezza del foliage, a quella tavolozza di colori che in questo periodo, unico in tutto l’anno, ci offrono gli alberi.. Magari anche pensando alla difficoltà di andarci davvero, nei boschi.
E invece non sono riuscita, l’attenzione non permette forzature mentali, corre al pericolo dove viene intuito, fa crescere l’ansia di giorno in giorno….E l’ansia si materializza , diventa densa tanto più appare nebuloso e pieno di incognite il possibile futuro breve. Perché c’è una sillaba che lo intorbida: SE. Se fossi positiva che cosa farei? E ancora prima: come faccio a sapere se sono positiva? Faccio una coda di ore con tosse e raffreddore per fare il tampone? Vado in ospedale? (non al pronto soccorso, per carità… e allora dove?). Poi, con qualche aiuto a distanza (di mio figlio, della mia dottoressa di base) come per incanto miracoloso – penso davvero a quasi un miracolo – arrivo in fretta a fare il tampone (in un ambulatorio….): NEGATIVO. Si sciolgono i grumi d’ansia, anche in mezzo a una tosse che mi squassa. Però resta la domanda, resta l’interrogazione.
Ci è stato detto, ripetuto fino alla nausea, della necessità delle mascherine, del distanziamento sociale (quando si smetterà di chiamarlo sociale invece che fisico ?), della necessità di stare in casa, di vedere meno gente ecc. ecc.. Tutto giusto, tutto necessario. Ma ci si può chiedere anche se l’invasività della narrazione del quadro delineato – della salvezza legata alla responsabilità di contrastare la diffusione del contagio – non sia anche un modo per non affrontare i ritardi nell’affrontare una decisiva svolta nella sanità. Io sono obbediente e responsabile, ma non posso non domandarmi che cosa è stato fatto in questi mesi, cosa è cambiato nelle politiche sanitarie complessive. Prendo l’esempio della Lombardia perché ci vivo e finora ero stata anche contenta di viverci. Se c’è stata una denuncia condivisa da tutti è che proprio il modello lombardo, fondato sull’eccellenza ospedaliera e sulla totale mancanza di un’assistenza territoriale (medici di base e interventi congiunti delle ASST) ha provocato i disastri che sappiamo. Eppure tutto è rimasto come prima. Dove sono le USCA, quelle nuove unità di medici che dovrebbero andare a casa ad assistere i sintomatici leggeri, quelli che non sanno dove sbattere la testa? Perché la grande paura delle migliaia di anziani – soprattutto, ma non solo, quelli che vivono da soli- è di essere lasciati inermi a dover fronteggiare l’incognito. A quanto pare esistono solo sulla carta.
Allora io penso che la responsabilità che si chiede alle persone individualmente dovrebbe anche e a maggior ragione essere richiesta alle istituzioni. Noi ci incolliamo la mascherina, ma loro non possono nascondersi sotto la mascherina per farci dimenticare le loro inefficienze.