La bellezza senza fine… sulla scena e nel nostro teatro interiore

Pubblicato il 10 Aprile 2021 in , , da Giorgio Landoni

Intermezzo

Si dice che a qualcuno che le rimproverava un eccesso di autocrazia, quasi certamente in modo sommesso, visto il personaggio, la grande Caterina imperatrice di Russia rispondesse:”Pensate cosa sarebbe stato Shakespeare senza Elisabetta o Molière senza Luigi e guardate invece cosa fece la repubblica a Dante”.

Non so se l’aneddoto sia vero o se si tratti di una delle tante leggende con le quali infioriamo la storia dell’umanità, ma se ammettessimo che esso sia almeno verosimile dovremmo dirci che é molto interessante che, per sostenere il proprio punto di vista di autocrate quanto mai opulenta, l’imperatrice menzionasse due autori teatrali fra i maggiori nel mondo.

Solo un caso? Può darsi, ma forse anche no, poiché il teatro é un’invenzione straordinaria e, anche se  probabilmente non si trattò di una singola persona, chiunque abbia pensato e inventato una struttura così affascinante, uno strumento tanto singolare, non doveva mancare di genialità.

Dal momento che la scorsa volta ho accennato a un  nostro teatro interiore, vorrei aggiungere qualche considerazione a mo’ di conclusione.

Ouverture

Qualcuno può avere trovato oscura l’idea che una sorta di nostro teatro personale possa influire sul nostro umore e, in fondo, sulla nostra vita. Proviamo allora a dirne qualcosa in più e riprendiamo dalla soave Signora Dalloway, personaggio creato da V. Woolf.

Signora Dalloway

Ricordate? Stava occupandosi dei preparativi di una festa che aveva organizzato per quel giorno stesso. Mentre fantasticava sulla serata, sui partecipanti, su quello che essi le avrebbero potuto dire e che lei avrebbe risposto, piena di felicità, un’idea improvvisa le attraversò la mente come una frustata:“Pare incredibile che tutta questa bellezza debba finire”. Tutto si stava svolgendo dentro di lei, su un suo personale palcoscenico del quale lei stessa aveva ideato la trama e muoveva le scene e gli attori.

Ora l’idea che irrompe improvvisa blocca tutto. La caducità della bellezza é un grande problema per ogni essere umano.

Se ci riflettiamo, le restrizioni che tutti stiamo subendo, oltre a depredarci di molti oggetti amati. ci hanno anche costretto da un lato a prendere atto di quanto possano essere effimere cose che ritenevamo durevoli e dall’altro hanno messo a nudo in modo piuttosto brutale la nostra fragilità.

Insomma le belle cose che ci danno piacere sono fragili, caduche e, con esse, lo é pure la bellezza che esse donano a ciascuno di noi. Di norma noi riusciamo a ignorare tutto questo, rifuggiamo istintivamente da tutto ciò che ci procura dolore o dispiacere e per ottenere questo risultato ricorriamo a una specie di scudo potente che ci protegge: il nostro teatro interiore.

Come tutte le cose di questa terra questa protezione ha dei limiti, in certe condizioni si indebolisce e a volte perfino scompare del tutto: la coscienza della nostra fragilità può irrompere sorprendendoci come accade alla signora Dalloway. Ci sono reazioni allora, ma per il momento ancora una piccola diversione.

Atto primo

Il teatro come lo conosciamo noi deriva probabilmente da antichi riti religiosi. I fedeli vi prendevano parte solo come spettatori della liturgia attraverso la quale i sacerdoti, soli autorizzati ad agire, entravano in relazione con gli dei, esseri immuni sia agli insulti del tempo perché posti al di fuori di esso, nell’eternità, sia agli assalti del dolore perché capaci di amministrarlo.

Il teatro segna un cambiamento profondo nella concezione della vita umana. Segnala che noi abbiamo una vita interiore che vale la pena di prendere in considerazione poiché essa ci appartiene, non é il frutto dell’azione di un qualche dio che ci possiede. Per dire: non é vero che l’ira di Achille esprima la presenza di Giove nell’eroe così come l’astuzia di Ulisse non significa quella di Minerva in lui come ritenevano gli Achei al tempo di Omero.

In Occidente, e specificamente in Grecia dove per noi esso é nato, il teatro si propone non solo come luogo di una rappresentazione, ma anche come quello di una relazione partecipata fra chi agisce e chi osserva, fra attore e spettatore. Il teatro era l’insieme di agire e osservare un’azione. Oggi in genere andiamo a teatro per divertirci vedendo uno spettacolo, ma in origine non era così.

Teatro Greco

Al suo sorgere in Grecia, il teatro si occupava della natura e della vita e lo spettatore, contemplando lo spettacolo, si confondeva in esso, conosceva la vita sperimentandola nello spettacolo. Ed era lo stesso spettatore che fino a poco tempo prima riteneva di vivere attraverso la presenza dei suoi dei.

Tornando allora all’imperatrice, ritengo che non parlasse a caso e vorrei chiarire il perché.

Il nostro teatro moderno compendia in sé numerose forme artistiche diverse: figurative, letterarie, musicali. Vi é pittura, architettura, scultura nelle sue scene, nei costumi, nel gioco delle luci e delle quinte che danno un’illusione di movimento di ciò che in realtà rimane fermo. Vi é poesia nei testi, a volte anche grande poesia, così come vi può essere grande musica sia ad accompagnarli oppure anche come parte essenziale della vicenda che si va svolgendo. Lo sappiamo bene noi italiani maestri del melodramma, il cinema di un tempo.

Mi sembra fosse Balanchine a sostenere che una forma di teatro, il balletto, il quale aggiunge prestazioni atletiche importanti a quelle artistiche, é il sommo dell’arte e della bellezza che essa ci può regalare.

Il teatro crea un mondo fuori dalla realtà quotidiana, un mondo che ci avvince perché stimola la nostra fantasia, lascia spazio all’immaginazione.

Il mondo della scena si moltiplica, diventa un’infinità di mondi diversi, ognuno corrispondente a una data persona, a quello spettatore e al suo personale teatro interiore. Il teatro concede a ognuno di noi la possibilità mimetica di essere qualsiasi cosa sulla scena e quindi la scena teatrale può diventare qualsiasi cosa.

In fondo siamo tutti autori e attori teatrali.

Creare bellezza

La frase di Caterina aveva un senso evidente: si deve riconoscenza a chi sa usare il proprio potere, la propria ricchezza in modo generoso, da mecenate che ricompensa chi sappia creare bellezza.

Un uso generoso del superfluo riesce a trasformarlo in ricchezza comune e il mecenate possiede il pregio di comprendere che solo la bellezza, quasi un dono degli dei, é in grado di consolare il mondo.

Dicevo: toglieteci il nostro spettacolo, il nostro teatro personale e ci sentiremo tristi e sconsolati.

Come mai? Il motivo é forse difficile da credere ma il nostro teatro personale é quello che da cui la nostra vita trae senso.

Consideriamo per un solo momento i nostri desideri, quei desideri titanici della nostra infanzia quando tutto sembra essere a portata di mano.

Essi sono in fondo solo lo sforzo di replicare un’esperienza di soddisfazione, piacevole, che sta scritta in noi perché l’abbiamo già provata almeno una volta. Realizzarli significa sentirsi felici, ma prima di realizzarli noi li anticipiamo nella nostra fantasia come faceva la signora già ricordata. Soddisfiamo i nostri desideri anzitutto nella nostra immaginazione, anticipando la loro realizzazione concreta.

Per la psicoanalisi un desiderio é il ricordo di un piacere provato e che vorremmo ritrovare. Quando ci riusciamo la vita ci sorride.

Dovremmo considerarli come sogni che non svaniscono al risveglio ma che passano nella realtà.

Ecco di cosa é fatto il nostro teatro interiore che possiede un potere notevole, quello di proteggerci da delusioni e dispiaceri e dal dispiacere più grande, la perdita.

É un luogo immune dal tempo, e quindi dalla caducità che esso comporta, ed é un antidoto rispetto alla sofferenza perché offre una rifugio che, fino a un certo punto, e lo sottolineo, essa non può violare. É noto comunemente che spesso, quando si soffre, si cerca rifugio nel sonno, ci si dorme su, ma vi sono altri esempi per chiarire ulteriormente le cose. Nel nostro mondo interiore il tempo sembra a volte potersi fermare: per esempio i figli restano sempre i nostri bambini e li vediamo ancora come tali (magari provocando la loro reazione stizzita). E ancora: la persona con cui li abbiamo fatti può rimanere sempre quella che ci ha detto qualcosa di speciale al nostro primo incontro, attraente per noi come quella prima volta perché, al di là delle inevitabili ferite materiali che il tempo ci infligge, poniamo su di lei un’immagine che é il ricordo di un altro tempo.

Come funziona?

Questo teatro personale, interiore, funziona esattamente come la sua manifestazione esteriore, il teatro come intrattenimento che tutti conosciamo. Probabilmente sarebbe più giusto dire che il teatro “esterno” é una manifestazione visibile di quello interno.

É una struttura che ci vede assumere una parte, di solito quella di protagonista: per esempio la signora Dalloway si vede al centro dell’attenzione dei suoi invitati oppure intenta a occuparsi di loro affinché si sentano a proprio agio.

Questo teatro é anche storia: il modo in cui recitiamo la nostra parte é unico, assolutamente individuale poiché  deriva dalle nostre vicende, esprime la storia personale di ognuno di noi narrata da ognuno a modo suo.

A modo suo, ma non in qualsiasi modo. Se la vicenda e il modo di narrarla varia da persona a persona, vi sono in fondo due soli parametri che la organizzano sempre e che suonano più o meno in questo modo: mi piace oppure non mi piace. Il che in fondo significa: é bello oppure é brutto, o anche é buono oppure é cattivo. Nella media abbiamo una commistione dei due e poi vi sono i casi estremi, come sempre accade.

La scena vuota, il lutto

Può accadere che il nostro teatro interiore si fermi, che la scena resti vuota. Sono situazioni traumatiche estreme di solito in seguito alla perdita di qualcosa di molto significativo per la nostra vita.

Ci sentiremo tristi e sconsolati dicevo e ho già ricordato che noi ci ribelliamo istintivamente all’idea che quello che amiamo possa venir meno: quando la realtà ci impone il pensiero della caducità di quello che amiamo, essa ci turba e ci indispone. Di regola restiamo tenacemente aggrappati a quello che ci produce piacere, lo amiamo e ci riesce difficile accettare l’idea che esso possa venire a mancare. Anche quando esso scompare, quando é perduto per sempre, é sempre difficile rinunciarvi veramente.

Per esempio molti episodi di reazione violenta di fronte alla sofferenza e alla perdita di una persona cara, di cui narrano a volte le cronache, esprimono questo dato di fatto: sono una ribellione, espressa in termini impropri perché violenti, di fronte alla caducità che si manifesta realmente, duramente, senza che il rifugio nella nostra immaginazione offra un rimedio possibile.

Il vuoto che si crea in noi in questi casi può avere destini diversi a seconda di come sapremo trattarlo.

Esso potrà espandersi talora fino a impadronirsi di noi, a occuparci completamente riempiendoci del suo nulla, facendoci sentire allora letteralmente privi di senso, quindi profondamente tristi fino alla disperazione a volte. Oppure potremo cercare di governare questo vuoto, di buttarlo via per non avvertirne più il peso e la minaccia. In genere per raggiungere questo obiettivo ci attiviamo: usiamo comportamenti, azioni, fatti, cose e anche persone a cui attribuiamo una funzione anestetica, per non avvertire la perdita, la mancanza. Fatalmente però in questo caso tutti questi oggetti, i quali hanno senso solo per la funzione che dovrebbero svolgere, alla fine non ci dicono più nulla e vengono sostituiti con altri che hanno una funzione simile, ma che restano privi di valore proprio.

A volte però le cose possono andare in modo molto diverso: quel vuoto diventa l’occasione per mettere alla prova la nostra capacità di inventare, di ammobiliare lo spazio che si é creato nella nostra vita, di esprimere la nostra capacità di dar vita a qualcosa di nuovo.

La condizione affinché questo possa accadere e noi possiamo riprenderci il possesso del nostro teatro interiore, a ripopolarlo di personaggi vivi che diano senso alla nostra esistenza, é che riusciamo a staccarci da quello che non esiste più, a smettere di essergli legati.

Questo é ciò che la psicoanalisi chiama “fare il lutto”, un vero e proprio lavoro su di noi. Il lutto é una condizione molto più difficile da spiegare di quanto non si pensi. É abbastanza strano infatti che quando la nostra capacità di dedicarci a qualcosa di nuovo può sembrare libera poiché scompare quello a cui siamo legati, noi persistiamo a rimpiangere ciò che é scomparso

Razionalmente, poiché abbiamo di nuovo a disposizione la nostra capacità di amare, di attaccarci a nuove cose piacevoli, di crearne di nuove, non dovremmo persistere a rimpiangere quello che non c’é più.

Non basta dire che si tratta di qualcosa/qualcuno che ci é caro. Questo indica semplicemente l’esistenza di un attaccamento, ma perché mai restare attaccati a quello che non esiste più?

Il nostro teatro interiore é la chiave per capire le cose. In esso gli oggetti del nostro amore, animati o inanimati che siano ma comunque vivi perché noi li animiamo con la nostra passione, occupano i posti di una scena che permane anche quando quei posti sono vuoti dal momento che gli oggetti che li occupavano non ci sono più.

Noi rifiutiamo all’inizio questa realtà e persistiamo a volerla negare riproponendo la scena come vorremmo che essa fosse, immutata. Ci opponiamo al dolore e solo con fatica, poco alla volta, riusciamo a prendere atto della realtà nuova che si é creata.

Per finire

Chiamiamo ricordo quello che resta in noi degli oggetti perduti e in questo senso il nostro teatro interiore oltre che strumento che ci protegge é anche quello che ci fa vivere l’esperienza del lutto, quando ci sforziamo di tenere in vita quello che non esiste più pur sapendo come stanno le cose in realtà.

É un’esperienza fondamentale: insegna a proseguire nella vita, ma per essere veramente un’esperienza e non soltanto un momento che passa, occorre che  resti come una cicatrice nel pensiero e nelle emozioni di ognuno. Ci dice che vivere é anche sapere della difficoltà, quella che oggi tocchiamo con mano tutti, che non risparmia nessuno come é giusto che sia. Così il sipario cala, le luci si attenuano fino a spegnersi e tutti, attori e spettatori escono di scena.

Ma il teatro continua.