Qualche mese fa un giovane critico letterario, piuttosto polemico con le mie opinioni sia politiche che culturali (secondo lui indecifrabili, se non aberranti), mi ha chiesto in conclusione qual è, secondo me, il maggiore filosofo del Novecento. Non ho dovuto riflettere molto per rispondere: Simone Weil. Questa risposta, pur essendo accolta come un’ulteriore provocazione, sembrava anche offrire finalmente un chiarimento: perché certo Simone Weil la si sente nominare, ma non si sa mai come prenderla, non rimanda alle culture dominanti nel Novecento o le respinge, tiene insieme, non per moderatismo, ma per radicalismo, politica e religione, etica e gnoseologia: e quindi, soprattutto, non viene letta, esige molto dal lettore e disturba in particolare gli intellettuali e la loro categoria oggi prevalente, quella degli universitari. La Weil non ha confezionato trattati sistematici usufruendo di fondi di ricerca, e per questo dai filosofi di professione, abituati a rimasticare qualunque autore, spesso senza ragioni sufficienti, viene ritenuta a torto un pensatore non sistematico, teoreticamente inadeguato perché frammentario. Niente di meno vero. Simone Weil non ha costruito sistemi, edifici concettuali dentro cui ripararsi. La sua produzione è occasionale, profondamente motivata dagli eventi della sua vita e da quelli politici degli anni in cui è vissuta (il ventennio fra le due guerre mondiali). Ma i suoi articoli e saggi, i suoi diari e aforismi configurano un pensiero straordinariamente coeso e coerente, originale (parola a lei non gradita!) nella sua cartesiana lucidità e in una eroica onestà esistenziale.
Stranamente, faziosamente, accusano la Weil di non professionalità filosofica coloro che non battono ciglio davanti a Nietzsche, conformisticamente lo ritengono, in questi anni, un filosofo “epocale” (esagerando), salvo mettere fra parentesi il punto centrale e la punta contundente di tutto il pensiero di Nietzsche: il suo proposito di pensare filosoficamente fuori della filosofia tradizionale, delle sue problematiche e del suo linguaggio.
Perché disturba, perché “non frutta” Simone Weil? La risposta è che non viene da Hegel né rimanda a Nietzsche (dichiarò di non sopportarlo); fa totalmente a meno di Freud anche quando parla di psicologia, di passioni e di desideri; non tiene conto né del “Tractatus” di Wittgenstein né di “Essere e tempo” di Heidegger; non ha niente a che fare né con il Surrealismo né con altre avanguardie. Le sue riflessioni politiche non escludono l’esperienza religiosa, il suo impegno politico non esclude, anzi implica, un’idea della mente umana che abbia la capacità di trascendere i dati immediati dell’esperienza. Il suo ateismo intellettuale non nega la possibilità di concepire Dio, se davvero se ne è capaci, cioè se si è in grado di vivere, di convivere con una certezza religiosa in un mondo costruito sull’assenza di Dio e la cancellazione del sacro.
Il pensiero della Weil si muove tra Platone e Marx, fra cultura greca (e in parte orientale) e un cristianesimo che a volte affascina i cristiani, li chiama in causa con la figura di Cristo e con il simbolo della Croce, ma in definitiva è giudicato un cristianesimo inaccettabile perché troppo “personale”. Dato che rifiuta la Chiesa, deve pur essere un cristianesimo che ha qualcosa che non va. Si sospetta che pecchi di superbia intellettuale o di un eccesso di umiltà malintesa. Se poi aggiungessi altre cose che credo, e cioè che la Weil è anche il maggiore, o migliore, o più onesto teologo del Novecento, un teologo esistenziale e anti-dottrinale; che è uno dei più grandi saggisti allo stato puro, cioè senza specializzazioni disciplinari, come pochissimi altri (penso a Karl Kraus); ed è, con Orwell, uno dei pochi e veramente utili scrittori politici – allora la provocazione sembrerebbe intollerabile. Anche perché, mettendo insieme e sommando tutte queste cose, risulterebbe scandalosa la perdurante distrazione con cui viene trattato dagli intellettuali l’insieme dei suoi scritti.
Intendiamoci, il fatto che la Weil resti un autore per pochi, se non è un bene, soprattutto non è un male.Anzi è del tutto naturale: è una delle poche cose naturali ed equilibrate che accadono in quella fiera delle falsificazioni e delle sproporzioni che è la nostra cultura. Ci sono autori di valore ingiustamente ignorati, alcuni di grande successo ma scadenti, altri giustamente famosi ma in realtà non letti. La Weil, almeno, sembra ancora essere letta solo da chi è disposto a capirla, e questa credo che sia la prima cosa che un autore dovrebbe augurarsi. Ho detto che la Weil è un grande saggista: questo significa che non è facile, forse è impossibile riassumere il suo pensiero, non separabile dalla forma di scrittura che di volta in volta lo esprime. Non riesco a pensare a nessun altro saggista che, come lei, abbia avuto una così divorante passione di farsi capire, una vera fobia di risultare ambigua, di essere fraintesa. Potrei dire, senza enfasi, che scrivere per lei era una forma della preghiera, nel senso che scriveva come in presenza del giudizio di Dio. E questo lo si sente, ovviamente, nei suoi scritti più religiosi, ma anche quando scrive articoli sull’ascesa del nazismo in Germania e sul fallimento della politica operaia dei partiti socialdemocratico e comunista. Per usare una formula weiliana, non si tratta di “dire la verità”, che non è un oggetto definibile e preesistente al discorso, ma di parlare e scrivere “in spirito di verità”, cioè avendo la verità come scopo.
Detto questo, più che riassumere, farò un breve elenco di temi, illustrato con qualche citazione. Al primo posto metterei proprio il tema della verità. Tema morale, intellettuale, politico, religioso. Verità, per la Weil, vuol dire anzitutto incarnare nella vita il bisogno di verità, che non è limitato al pensiero e alla parola. Nella “Prima radice” leggiamo: “Il bisogno di verità è il più sacro di tutti. Eppure non se ne parla mai. La lettura fa spavento, quando ci si sia resi conto della quantità e dell’enormità di menzogne materiali, diffuse senza vergogna anche nei libri degli autori più amati. E così leggiamo come se si bevesse acqua di un pozzo sospetto”. Il giornalismo in queste pagine diventa l’argomento centrale, e la conclusione attiene già alla politica: “Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità”.
Fondamentale per quegli anni e decenni (1920-1940), nonché per l’intero secolo e per il culto in generale della Storia, è la critica che la Weil rivolge a Marx e al marxismo, alle idee di rivoluzione e di progresso, alla socialdemocrazia e ai partiti comunisti della Terza Internazionale, dipendenti da Mosca. Tutto il lungo saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione” (scritto nel 1934) è dedicato a questo. Scelgo poche righe: “Del ‘socialismo scientifico’ si è fatto un dogma, esattamente come è avvenuto per tutti i risultati conseguiti dalla scienza moderna (…). Marx supponeva, senza peraltro provarlo, che ogni specie di lotta per il potere sparirà il giorno in cui il socialismo verrà realizzato in tutti i paesi industrializzati; l’unica sventura è che, come aveva riconosciuto Marx stesso, la rivoluzione non si può fare contemporaneamente dappertutto; e quando la si fa in un paese, essa non sopprime, anzi accentua la necessità per questo paese di sfruttare e opprimere le masse lavoratrici, perché teme di essere più debole delle altre nazioni. Di questo la storia della rivoluzione russa costituisce un’illustrazione dolorosa (…) la totale subordinazione dell’operaio all’impresa e a coloro che la dirigono poggia sulla struttura della fabbrica e non sul regime della proprietà (…) ‘la degradante divisione del lavoro in lavoro manuale e lavoro intellettuale’ [Marx] è il fondamento stesso della nostra cultura, che è una cultura di specialisti (…) Lo stesso ‘socialismo scientifico’ è rimasto monopolio di alcuni e gli ‘intellettuali’ purtroppo hanno nel movimento operaio gli stessi privilegi che nella società borghese”. Aggiungo una postilla: “Ma altre forme della macchina utensile hanno prodotto, soprattutto prima della guerra, forse il tipo più bello di lavoratore cosciente che sia apparso nella storia, cioè l’operaio qualificato”.
Nel 1937 in un articolo “Sulle contraddizioni del marxismo” la Weil parla di un “inconsapevole conformismo” di Marx di fronte alle “superstizioni più infondate della sua epoca, cioè il culto della produzione, il culto della grande industria, la credenza cieca nel progresso”. E aggiunge che il movimento operaio dovrebbe “attingere, non dico delle dottrine, ma una fonte di ispirazione in ciò che Marx e i marxisti hanno combattuto e così follemente disprezzato: Proudhon, le forme di organizzazione operaia del 1848, la tradizione sindacale rivoluzionaria, lo spirito anarchico” (“Incontri libertari”, a cura di Maurizio Zani, Eléuthera).
In un articolo del 1933 sul “Riformismo tedesco” leggiamo: “Si può affermare che in Germania l’organizzazione operaia ha dato nell’ambito della legalità capitalista la migliore espressione di sé. I risultati non sono disprezzabili”. Ma “in questo modo gli operai si sono incatenati all’apparato dello Stato”. E quindi le cose cambiano, i vantaggi conquistati vengono meno “se la borghesia tedesca fa ricorso al fascismo” per superare la sua crisi. Mentre “la politica del partito comunista tedesco (…) consiste in una propaganda puramente verbale; si predica la rivoluzione a della gente che non chiede se questa è desiderabile, bensì se è possibile”.
Infine, il testo che riassume la riflessione politica e morale della Weil è “La prima radice” (dicembre 1942-aprile 1943), la cui prima parte è intitolata “Le esigenze dell’anima”. Invece che di diritti si parla di “obblighi” o doveri nei confronti dell’essere umano. Mi limito a ricordare l’elenco di questi “bisogni vitali” da rispettare: l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità, l’uguaglianza, la gerarchia, l’onore, la punizione, la libertà di opinione, la sicurezza, il rischio, la proprietà privata, la proprietà collettiva, la verità.
Si capisce bene quanto poco fondata, se non in qualche caso disonesta, sia stata, a sinistra e a destra, la scelta di distinguere e separare una Weil politica, marxista e rivoluzionaria da una Weil moralista, religiosa, mistica e cristiana, per valorizzare un aspetto e liquidare l’altro.
Bisogna ripetere invece che nel pensiero weiliano sono stati sottoposti a una critica serrata, propriamente razionalistica e antidogmatica, tanto il marxismo che il cristianesimo, in quanto edifici dottrinali adottati e sostenuti da organizzazioni partitiche o ecclesiastiche tenute insieme da un corpo di chierici o di politici professionali. In saggi relativamente brevi ma fondamentali come “La persona e il sacro” (1942-43) e “Nota sulla soppressione dei partiti politici” (1943, entrambi in “Écrits de Londres”, Gallimard) è chiaro che la separazione tra morale, politica e ispirazione religiosa è impossibile, sarebbe un vero abuso interpretativo. Proviamo a leggere: “C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia fino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. E’ questo, prima di tutto, ciò che è sacro in ogni essere umano” (“La persona e il sacro”). Affermazioni come questa non si potrebbero assegnare a nessuna sfera delimitata e separata: siamo nella psicologia, nell’etica, nella religione o nella politica? Qui tutto è connesso, ed è a queste pietre angolari del pensiero che Simone Weil si rivolge per fondare i suoi ragionamenti.
Dall’inizio degli anni Ottanta, con l’edizione Adelphi dei “Quaderni”, quattro volumi a cura di Giancarlo Gaeta usciti fra il 1982 e il 1993, si è periodicamente riproposta una lettura di Simone Weil attraverso convegni, antologie, monografie: se ne sono occupati Gabriella Fiori (autrice di una biografia uscita da Garzanti nel 1981), Domenico Canciani, Roberto Esposito (nel volume “Categorie dell’impolitico”, il Mulino 1988), Adriano Marchetti, Guglielmo Forni, Pier Cesare Bori (presenti in uno dei quaderni mensili di “Testimonianze”, intitolato “Le passioni di Simone Weil. Politica, cultura, religione”, 1994). Va notato comunque che il pensiero weiliano non è mai entrato davvero nel dibattito filosofico e politico, né in Italia né in altri paesi, come invece autori molto più astratti, equivoci e sfuggenti, per esempio gli studiatissimi e citatissimi Martin Heidegger e Carl Schmitt. La sinistra ha di gran lunga preferito autori come questi, compromessi più o meno direttamente con il nazismo, a Simone Weil, che avrebbe permesso di riflettere a fondo sull’intera vicenda della sinistra europea in un’ottica diversa rispetto a quella che oscilla ossessivamente fra confuse riproposte rivoluzionarie, speranze progressiste e riscoperte del pensiero liberale. Parlo della sinistra. Ma neppure la destra ha mai osato servirsi seriamente della riflessione della Weil nel suo insieme, che evidentemente non attira chi abbia intenzione di servirsene in funzione propagandistica.
In tutto il periodo in cui si formò e agì una Nuova Sinistra a livello internazionale, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta, della Weil non si parlò. Fu quella, credo, forse la più grave fra le occasioni mancate. La Nuova Sinistra di allora non aveva più come punto di riferimento l’Unione Sovietica, cosa avvenuta anche dopo il 1945 e fino allo scontro che oppose Sartre e Camus in seguito alla pubblicazione dell’“Homme revolté”. Ma la Nuova Sinistra nacque anzitutto come riscoperta del vero Marx “scientifico” e antihegeliano e del marxismo rivoluzionario degli anni Venti: Lukács di “Storia e coscienza di classe” e Karl Korsch di “Marxismo e filosofia”. La critica all’Unione Sovietica lasciò intatto l’impianto marxista e anzi lo rilanciò e lo radicalizzò, mettendo da parte anche revisioni e integrazioni preziose come quelle di Gramsci e dei Francofortesi. Per anni dominò l’idea di un’attualità e urgenza della rivoluzione: questo sembrò il primo imperativo e fece nascere rapidamente un’ortodossia neoleninista che dimenticò di chiedersi se un’ipotesi rivoluzionaria fosse possibile e realistica in Europa, negli Stati Uniti e perfino in America Latina. Sembravano innominabili gli scrittori politici degli anni Trenta, le cui esperienze cruciali erano state la grande crisi del Ventinove, i fascismi, la guerra civile spagnola e lo stalinismo. La Nuova Sinistra nacque ignorando di proposito che c’era, doveva esserci un rapporto fra critica allo stalinismo e critica al marxismo.
Franco Fortini, che pure aveva scoperto presto Simone Weil, ed ebbe il merito di tradurre per le edizioni di Comunità testi tutt’altro che marginali come “L’ombra e la grazia” (nel 1951), “La condizione operaia” (1952) e “La prima radice” (1954), non propose però apertamente il pensiero della Weil come correttivo o antidoto a quel “ritorno a Marx” su cui si fondava la ricerca di “Quaderni rossi”. Un po’ come i giovani nichilisti russi dell’Ottocento guardarono con sufficienza o disprezzo il gran signore cosmopolita e liberal-socialista Aleksandr Herzen, così i giovani marxisti antiumanisti o nichilisti degli anni Sessanta italiani potevano ridere di Orwell e della Weil. Nessuno vide allora quanta lucidità teorica e competenza politica c’era nel saggio “Oppressione e libertà” che genialmente Simone Weil scrisse a venticinque anni.
Fu così che le traduzioni di Fortini si interruppero troppo presto, non diedero luogo a nuove traduzioni, né tantomeno a una considerazione approfondita del già tradotto. “La prima radice” era uscita senza un’introduzione del traduttore ed è negativamente significativo che in uno dei due libri di saggi più importanti di Fortini, “Verifica dei poteri”, uscito nel 1965, il nome della Weil non compaia mai. Si pensò in quegli anni che tutte le esperienze degli anni Venti fossero riproponibili e tutte le esperienze degli anni Trenta fossero definitivamente superate. Venne isolata, per esempio da Elémire Zolla, la Weil mistica e lo stesso Calasso, più tardi, editore benemerito di Nietzsche, vide nella Weil piuttosto un pensatore metafisico, e non sociale e politico, rendendo poco comprensibile la sua intera vicenda umana.
Grande lettrice della Weil, soprattutto dei “Quaderni”, fu Elsa Morante. Disse che quella lettura aveva cambiato la sua vita. E in effetti provocò una svolta nella sua opera. Chi legge i saggi di “Pro o contro la bomba atomica”, i poemi del “Mondo salvato dai ragazzini” e il romanzo “La Storia” può avvertire e rintracciare dovunque la presenza della Weil, pensiero e persona, che viene definita “l’intelligenza della santità”. Ma per dire in proposito qualcosa di più c’è bisogno di interpretazioni critiche, perché la Morante su quell’esperienza di lettura non ha scritto nulla. Per quanto ne so, il solo studio che affronti il problema è di Concetta D’Angeli: “La pietà di Omero: Elsa Morante e Simone Weil davanti alla storia” (in “Leggere Elsa Morante”, Carocci 2003). Si trova qui un’interpretazione della formula morantiana “l’intelligenza della santità”, da intendersi come intelligenza del mondo che può venire solo da una santità risolta soprattutto in capacità di capire, in intelletto.
Torniamo con questo alla verità, vocazione centrale della Weil. In una lettera da Marsiglia del 15 maggio 1942 a padre Perrin, che è un vero e proprio saggio sintetico di autobiografia interiore, la Weil scrisse tra l’altro alcuni passi che possiamo leggere come epigrafi definitive per tutta la sua opera: “Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d’improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d’attenzione per raggiungerla: in questo modo diventa egli pure un genio, anche se per mancanza di talento non può apparire tale esteriormente (…) Il concetto di verità comprendeva per me anche la bellezza, la virtù e ogni sorta di bene”. E ancora: “La funzione propria dell’intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, senza nulla dominare. Dovunque essa usurpa un comando, si verifica un eccesso di individualismo. Dovunque si senta a disagio, c’è una collettività oppressiva” (in “Attesa di Dio”, Rusconi 1972).
Fonte: FOGLIO QUOTIDIANO
di Alfonso Berardinelli