“Conversazioni estere” è un ciclo di incontri organizzato dal Corriere della Sera in collaborazione con Fondazione Oasis, il Foglio, Radio Popolare e Rivista Studio. Gli incontri si svolgono a Milano, nella sede di Microsoft Italia, nel nuovo grande edificio progettato dagli architetti svizzeri Hersog & de Meuron. Gli argomenti degli incontri sono complessi perché, non solo si analizzano situazioni attuali in Paesi esteri, ma si cerca anche di individuare possibili prospettive per il futuro. Si parla di guerre e di pace. Di ingiustizie e di speranza. Nei titoli di presentazione si parla dei cambiamenti che avvengono nel mondo, anche se a volte non ce ne accorgiamo, presi come siamo dalle storie quotidiane di casa nostra. Temi molto impegnativi .
Una scelta resta comune in tutti gli appuntamenti: sono sempre donne quelle che conducono e moderano gli incontri. Giornaliste che nel tempo hanno costruito la loro professionalità viaggiando e studiando in diversi Paesi come corrispondenti di varie testate italiane. L’iniziativa e la gestione degli incontri è dunque femminile, e in particolare è firmata da Barbara Stefanelli, vicedirettore vicario del Corriere della Sera. Inoltre gli eventi sono dedicati al ricordo della giornalista Maria Grazia Cutuli, assassinata in Afghanistan nel 2001, con un premio in suo nome. Ma poi diversi giornalisti maschi, inviati e scrittori di diverse nazionalità, hanno contribuito alla realizzazione degli incontri e dei dibattiti .
Il recente incontro a fine settembre era dedicato alla Libia, un Paese che ci è vicino per ragioni storiche e geografiche. Ma anche un Paese con il quale, date le sue diverse etnie e clan, resta difficile instaurare rapporti e accordi politici. E se allarghiamo lo sguardo dobbiamo constatare che negli ultimi anni la Libia, per migliaia di migranti, è diventata la porta verso l’Italia, i Paesi mediterranei e l”Europa. Partecipava al dibattito, condotto dalla giornalista del Corriere Alessandra Coppola, lo scrittore libanese Farid Adly, fuggito dalla dittatura di Gheddafi e profugo in italia da diversi anni. Adly ha scritto un libro molto appassionato,”La Rivoluzione libica” pubblicato dal Saggiatore, che parla della storia dell’insurrezione di Bengasi e della fine del regime di Gheddafi, vicende che ha visto e vissuto anche di persona. E ha sottolineato come per molti libici quella rivolta contro un potere dittatoriale sia stata una vera rivoluzione “democratica”, che ha tentato di coinvolgere pacificamente e senza successo anche i fratelli musulmani del Cairo. Oggi Farid Adly collabora con Radio Popolare, l’ Unità, il Manifesto, il Corriere della Sera, e scrive libri sulla cultura musulmana.
Najwa Ben Shatwa, scrittrice libica, anch’essa profuga in Italia, ma di una generazione più giovane, ha testimoniato che sotto Gheddafi la condizione delle donne era pessima e lei stessa ha subito persecuzioni e umiliazioni. E ha precisato che anche dopo la caduta del regime di Gheddafi non c’è stato un vero cambiamento e la situazione non è migliorata. Ancora oggi in Libia le donne sono limitate nei loro movimenti, devono essere accompagnate da un uomo, e se vogliono studiare ed essere indipendenti incontrano molte difficoltà. Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere, ritornato di recente dalla Libia ha fatto una descrizione dettagliata del vasto territorio libico che è diviso tra tante città-stato ed etnie diverse, chiarendo come la rivoluzione libica e la caduta di Gheddafi del 2011, sostenuta dall’Occidente e dalla Nato, che aveva fatto nascere grandi speranze non abbia portato a una vera liberazione. La divisione in vari territori e città – stato, Tripoli, Bengasi, Misurata, Sirte, la Tripolitania e la Cirenaica e le diverse realtà tribali che permangono nella vasta zona del sud, creano una situazione molto complessa e un potere frazionato che crea difficoltà anche nei rapporti con le altre nazioni.
I recenti accordi dell’ Italia per regolare le immigrazioni stipulati con Fayez El Serray, primo ministro del Governo libico di unità nazionale, riconosciuto come legittimo dall’Onu, non sono sufficienti. In realtà si deve fare i conti anche con le diverse realtà tribali e le forze che sono in campo nel vasto territorio libico. Molte tribù della zona sud sono autonome e collaborano con il generale Haftar, capo dell’esercito libico e in realtà responsabile della parte orientale del paese. L’obiettivo del Governo italiano, nel memorando di intesa con la Libia firmato il 2 febbraio di quest’anno, era affidare ai libici il pattugliamento delle coste e il recupero dei migranti che salpano dalle spiagge libiche su imbarcazioni di fortuna. Dall’inizio del 2017 ne sono stati soccorsi più di 30mila, mentre quelli che hanno perso la vita in mare sono stati più di mille. Fayez El Serray, primo ministro del Governo di unità nazionale e unico riconosciuto come legittimo dall’ONU, ha chiesto all’Italia di investire 800 milioni di euro nella cooperazione per fermare l’arrivo dei migranti. Ma molti hanno messo in dubbio la validità di questo impegno perché in molti casi si sono violati e si continua a violare i diritti umani di tanti che fuggono da guerre, da fame, da povertà. Su uno schermo alle spalle degli invitati le foto di Alessio Romenzi di alcuni centri di detenzione in Libia (alcune immagini le trovi a corredo di questo articolo) e degli interventi di soccorso in mare erano fortemente esplicativi delle condizioni dei migranti. Il fotografo ha vinto un prestigioso premio per alcune immagini scattate durante una battaglia a Sirte e i tentativi di soccorso di un soldato.
Farid Adly e la scrittrice Najwa Ben Shatwan hanno ripetuto che in molti paesi libici, nonostante la liberazione da Gheddafi e la fine del regime, perdura la mancanza di libertà. E hanno ricordato che, anche se l’estremismo islamico con la sua influenza si è manifestato in sporadiche occasioni in alcune zone della parte meridionale della Libia, non si è mai persa la speranza di un vero cambiamento democratico di tutto il paese. In collegamento da Tripoli, ha avuto un certo rilievo la testimonianza di Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, che ha maturato negli anni una profonda conoscenza della situazione dei paesi del vasto territorio libico. Per la studiosa, i recenti accordi che l’Italia ha fatto con la Libia riguardano sostanzialmente la guardia libica costiera, il pattugliamento delle coste e il recupero dei migranti che salpano dalle coste del paese africano. L’effetto è stato il calo notevole dell’arrivo e del flusso dei migranti. E si dovrebbe avere anche un calo dei morti nel mare Mediterraneo. Ma dobbiamo tenere conto anche del problema del traffico illegale degli scafisti che non è solo libico, ma internazionale, e in molti casi ha causato tante morti. Si auspica un intervento dell’Onu, ma sarà un’ impresa di difficile attuazione. L’agenda delle trattative politiche sembra che sia in mano alla Francia. A luglio a Parigi il presidente Macron ha incontrato i rappresentanti delle due principali forze che controllano la Libia, il primo ministro libico Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar, capo dell’esercito Nazionale libico e di fatto leader della Libia Orientale. Ma i risultati – secondo il parere di molti – sono rimasti incerti anche quando gli incontri sono avvenuti a Roma con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Le Ong che agivano con operazioni di soccorso nel Mediterraneo sembrano oggi relegate in un ruolo molto marginale. Amnesty International ha dichiarato: “Invece di agire per salvare vite e fornire protezione, i ministri esteri europei stanno vergognosamente dando priorità a irresponsabili accordi con la Libia nel tentativo disperato di impedire a migranti e rifugiati di raggiungere l’Italia”.
I missionari italiani (Cimi) sull’ultimo numero della rivista “Africa” chiedono l’apertura di corridoi umanitari per chi fugge dalle guerre e una seria politica economica verso i paesi da cui provengono i migranti economici. Ecco il testo: “Noi missionari italiani, a lungo ospiti di tanti popoli d’Africa che ora bussano alla nostra porta, siamo profondamente indignati per quanto sta avvenendo ai migranti nel Mediterraneo, per noi ‘carne di Cristo’, come ama ripetere Papa Francesco”. Non è facile capire e giudicare. E neanche gli inviati, gli esperti dei paesi africani, i politici hanno trovato corridoi umanitari o suggerito vie legali per i flussi migratori e ridurre le morti di tanti profughi. Nell’incontro delle “conversazioni estere” non si è arrivati a una conclusione definitiva, salvo constatare che la visione laica spesso si scontra con quella religiosa. Interessante – suggerisco di andarlo a vedere – il recente film del regista Andrea Segre “L’ordine delle cose” girato in Libia e ben documentato anche sulle condizioni esistenziali dei rifugiati nei centri di accoglienza. Segre ha immaginato il tentativo di un ipotetico funzionario del governo italiano, che cerca di fare accordi con i capi tribali libici per trovare una soluzione all’afflusso dei migranti dal continente africano. Un comportamento molto umano.