“Il vecchio e la bambina”: storia di famiglia raccontata in punta di piedi

Pubblicato il 18 Maggio 2021 in , da Auro Bernardi

La bambina abita in una casa di ringhiera a San Bernardo, tra la ferrovia e il naviglio, dove la città finisce a comincia la campagna. È la terza di sei fratelli, tre maschi e tre femmine. Il papà, un ferroviere socialista, ha lasciato il lavoro per non iscriversi al Pnf e adesso si arrangia come può: fa l’imbianchino, quando capita, o altri lavori a giornata per mandare avanti la famiglia che occupa quattro stanze al secondo piano, affacciate al ballatoio.

Per la bambina oggi non è un giorno come gli altri. È un giorno che non dimenticherà. È autunno ed è sera. Si è già fatto buio. Sta salendo le scale che la portano a casa. È sola, l’androne è scuro, una sola piccola lampadina elettrica illumina a stento l’uscita sul ballatoio. Incontra un uomo che scende. Anche lui è solo. È un uomo che non ha mai visto. Non è un vicino, uno dei Colombini, che abitano al piano terra, o dei Pagani del primo piano. Non è nemmeno il vecchio cavagnìn (canestraio), sempre ubriaco.

L’uomo si ferma sul pianerottolo, come per aspettarla. Lei rallenta il passo, ma continua a salire, con il cuore che le batte sempre più forte. Deve passargli vicino se vuole arrivare alla seconda rampa di gradini. L’uomo le si accosta. La bambina vorrebbe farsi ancora più piccola e si stringe al muro, contro il pilastro, ma lui ormai le è davanti e le impedisce di proseguire. Si china su di lei e, senza dirle una parola, comincia ad accarezzarle i capelli, le spalle, poi le solleva la gonnellina. Le carezza le gambe, le abbassa le mutandine. La bambina è impietrita. Vorrebbe scappare, ma non ne ha la forza, vorrebbe gridare, ma la sua gola è muta. Le hanno sempre insegnato il rispetto per i grandi. A scuola anche alle maestre si dà del voi e solo con i fratelli si può ridere e scherzare, ma neppure con tutti. Ermando, il primogenito, è un ducetto che si fa lustrare le scarpe da Aldo e allacciare i bottoni dell’uniforme di avanguardista da Dino, il più piccolo, che ha solo cinque anni.

Le mani di quell’uomo diventano altre mani su quella bambina, non più bambina, che le scostano i vestiti, le abbassano le mutandine. E la bambina prova ancora ribrezzo. Vorrebbe allontanarle da sé con tutte le sue forze, ma non ci riesce.

Adesso la bambina vede un viso. Le sembra di riconoscerlo, ma è il viso di una persona che deve ancora venire, in questo 1930 dei suoi dieci anni. È il viso di un signore anziano, un uomo sulla sessantina, con pochi capelli grigi, baffi bianchi e un paio d’occhiali dalle lenti da miope. L’uomo le parla, ma la bambina non gli bada, o meglio, non riesce a capire quello che le dice. Somiglia al suo papà, ma non è lui. Perché papà non viene a trovarla all’ospedale? Ma anche l’ospedale ha un aspetto strano. Non ci sono altri bambini con lei, ma solo vecchi e vecchie dagli sguardi assenti. A volte arriva qualcuno che vorrebbe farla giocare, che le lancia una palla e la chiama forte per nome. Ma lei non vuole giocare con la palla. Se proprio le arriva vicina la ributta indietro con fastidio, quasi con stizza, mentre gli altri malati, quelli vecchi e assenti, sembrano invece divertirsi. A volte l’ospedale non sembra neppure un ospedale. Sembra un albergo o una scuola. Ecco: una colonia per la villeggiatura. Come le Colonie Padane fatte costruire in riva al Po, per i bambini che non hanno la possibilità di andare in vacanza. Insomma, per quasi tutti i bambini della città. Le Colonie Padane hanno la forma di una nave. Il fabbricato centrale è arcuato come una tolda, con la torre a fumaiolo e il pennone. Le finestre del pianterreno sembrano oblò, e perfino gli armadietti, dove i bambini tengono i cesti con la merenda e i grembiulini bianchi, somigliano a quelli di una nave. Tanti piccoli marinaretti che nel cortile porticato, con l’aiuola e la fontana, cantano ogni mattina gli inni del regime.

Anche qui li fanno cantare e questo, la bambina non più bambina, lo fa volentieri. Ha una bella voce, alta e squillante, e una naturale intonazione. L’estate scorsa, appena finita la scuola, i suoi genitori l’hanno messa a bottega da una sarta del centro che si serve di lei per le commissioni. La manda a consegnare gli abiti alle signore. Quando esce passa per un vicolo accanto alla cattedrale, una stradina stretta, con l’acciottolato e le case basse. Qui, a volte, da una finestra esce il suono di un pianoforte. Una musica dolce e soave, che la incanta. La bambina si ferma e ascolta. Ritarda la consegna per sentire quelle note che lei stessa vorrebbe suonare. Le sarebbe piaciuto studiare musica, come le ragazze delle famiglie ricche, ma la sua famiglia non è ricca e lei deve fare la sartina, consegnare gli abiti e tornare in fretta al laboratorio.

Anche qui cantano canzoni che le piacciono: Signorinella, Come pioveva, Mille lire al mese, Parlami d’amore Mariù… canzoni degli anni Dieci, dei Venti, dei Quaranta. Adesso non ricorda tutti i versi, qualche parola le sfugge, ma canta ugualmente. La melodia la ricorda bene, le note sono impresse nella sua memoria. Anche a messa canta, e la sua voce sovrasta tutte le altre con il suo timbro di soprano. Il vecchio signore intona una strofa, la invita a cantare. Le ha imparate anche lui quelle canzoni, quando era bambino e lei cantava tutto il giorno, da una stanza all’altra, impegnata nelle faccende di casa.

La bambina non più bambina è assopita. Forse è stanca, forse sogna. Forse la sua mente ha solo bisogno di staccarsi da quello che la circonda: dai vecchi dallo sguardo assente o dal ricordo dell’uomo delle scale che la carezza e le abbassa le mutandine. Quando si risveglia il signore anziano è ancora lì, accanto a lei, con il suo volto familiare e gli occhi tristi dietro le lenti da miope. La bambina, non più bambina, gli chiede perché il suo papà non è ancora andato a trovarla. Lui la guarda, le sorride, ma non le risponde. Allora gli chiede quando potrà tornare a casa, nella sua casa di ringhiera a San Bernardo, tra il naviglio e la ferrovia, dove la città finisce. Quando potrà giocare con i suoi fratelli e con i fratelli Colombini e i Pagani, prendere in giro il vecchio cavagnin sempre ubriaco e scappare veloce alle sue sfuriate. Non le piace stare lì, in quell’ospedale o in quella colonia dove non ci sono bambini, ma solo vecchi. Perché non viene la sua mamma, che l’ha abbracciata stretta quella sera, quando finalmente è arrivata al secondo piano con le lacrime agli occhi e il vestitino sporco? La bambina non più bambina non dice tutte queste cose al vecchio signore. Forse le pensa soltanto, o forse non è neppure un pensiero compiuto, ma un barlume, un breve lampo che illumina per un attimo i suoi occhi, assenti come quelli dei vecchi che vede attorno a sé.

Il signore anziano la prende per mano e la aiuta ad alzarsi. La sostiene mentre insieme muovono qualche passo nel lungo corridoio che porta all’uscita. Lei fatica a camminare e si appoggia a lui. Le gambe cedono, però si sente protetta e sicura. Cammina adagio, a piccoli passi, a braccetto del suo cavaliere. Escono nel portico che circonda il giardino di quella strana colonia che non è le Colonie Padane. Anche lì ci sono le aiuole e la fontana, ma non ci sono bambini. Perché non c’è nessun bambino di tutti quelli che abitano in città? Solo nella sua casa di ringhiera i bambini sono più di venti e nessuno dei loro genitori può permettersi la villeggiatura. I più grandi vanno già a lavorare, ma i più piccoli, quelli che frequentano ancora la scuola, passano l’estate alle Colonie Padane. Adesso la bambina non più bambina è stanca anche di camminare. L’uomo anziano la riaccompagna nel lungo corridoio che percorrono adagio, fino al tavolo del refettorio dove sono già seduti tutti i vecchi che giocavano a palla e che cantavano le canzoni degli anni Dieci, Venti e Quaranta. Il signore anziano la aiuta a sedersi, le sistema la sedia e le dà un bacio sulla guancia. Le promette di tornare presto, magari con qualcuno dei suoi fratelli, con la sua mamma o con il suo papà, se avranno un po’ di tempo. Torna verso l’uscita, sta per andarsene, ma si sente chiamare. È un giovane con il camice bianco, un dottore, che gli chiede di entrare qualche minuto nel suo studio, lì accanto.

I due sono ora seduti uno di fronte all’altro. Il dottore si presenta: “Sono il responsabile di questo reparto. Come lei sa, nei malati di Alzheimer la memoria a lungo termine può condizionare i comportamenti anche a distanza di parecchi anni. Ebbene, le infermiere mi hanno riferito che sua madre presenta molte difficoltà quando deve essere manipolata nel bagno assistito, difficoltà superiori alla norma intendo dire, come se temesse qualcosa quando la spogliano, come se le ripugnasse il contatto fisico, mani estranee che toccano il suo corpo. Le risulta che abbia subito qualche trauma, da piccola? Mi scusi se glielo domando, ma vorrei evitarle altre sofferenze”.

“Sì, dottore, è come dice lei. È stata violentata da uno sconosciuto quando aveva dieci anni”.

Il medico resta in silenzio qualche istante. Anche l’uomo anziano tace. “Lo immaginavo” dice il dottore sottovoce, quasi parlando tra sé. Poi, come per allontanare quelle ombre del passato: “Ma lo sa che a novantacinque anni la sua mamma, quando canta, ha ancora una bellissima voce?”.