Sono in mezzo agli scatoloni del trasloco. Trovo cose di cui non sapevo l’esistenza, oggetti dimenticati da anni. Da una parte vorrei buttare tutto, dall’altra mi piacerebbe avere il tempo di valutare ogni oggetto con la sua storia e la sua utilità (non è detto che l’utilità di un oggetto sia direttamente proporzionale ala sua storia e viceversa). Ma, siccome metterci tre anni per fare un banale trasloco è troppo e io ho solo quindici giorni di tempo, ho ritenuto opportuno accelerare le operazioni.
Così per le prime ore del giorno, quando i pochi neuroni rimasti sono ancora freschi, sono sul pezzo e distinguo con lucidità quello che devo mettere nelle scatole da portare via e quello che va nelle scatole per il Mato Grosso o per la discarica (ci sono cose che sono talmente vecchie e rancide che mi vergognerei a darle ad altri e sinceramente anche a farle vedere ad altri). In seguito, con l’arrivo delle prime ombre della sera, inizio a riporre robe a vanvera: butterei via la crema idratante che ho appena comprato in farmacia per poi tenere una pentola antiaderente talmente rovinata che ci si potrebbe leggere il futuro, se ci fosse qualche bella premonizione da vedere nel teflon rigato.
Quando si compiono questo genere di operazioni si cambia umore spesso: c’è il momento in cui sei contento di liberarti di tutta quella fuffa che stai eliminando, il momento in cui ti arrabbi con te stesso per aver speso soldi al fine di accumulare tante ciofeche, il momento in cui ti congratuli con te stesso per il tuo infinito buon gusto. Poi c’è la parte noiosa e faticosa, quella in cui imballi le cose di tutti i giorni verso le quali non provi alcun sentimento in particolare (anche se conosco gente attaccata morbosamente a bicchieri e posate, personalmente faccio fatica a trovare interessanti tali suppellettili). Poi c’è la parte più difficile, quella dei ricordi. E tu, ormai stanco e fragile dopo una giornata di scatole, ti trovi lì seduto per terra pieno di polvere che ridi o piangi o entrambe le cose davanti a una foto.
Intanto che fai tutto ciò macera dentro di te una domanda: ma non sarà azzardato cominciare una nuova vita a cinquant’anni? Hai paura che andrà tutto male, che non avrai le forze. Temi di non farcela perché ormai sei vecchio.
Infine ecco i libri, che si mettono nelle scatole dicendo loro arrivederci a presto, perché i libri non si buttano e non si discutono: si portano con sé come vecchi amici polverosi, punto e fine. Loro sono pieni di ricordi, pieni di vita, pieni di consigli e di parole giuste. E sempre, sempre, in qualsiasi forma si trovino, le parole giuste sono la risposta.
La risposta l’ho trovata stamattina in un’antologia per la scuola superiore, che s’intitola “Il più bello dei mari”. So da dove viene quella frase. È la metà di un verso di una poesia di Nazim Hikmet, che quando la compose era in prigione da anni. Mi sono ricordata l’altra metà, che dice “è quello che non navigammo”.
In questa poesia Hikmet ci vuole dire che bisogna guardare al futuro con fiducia e speranza. Perché la strada più bella è sempre quella che non abbiamo ancora percorso. Come avevo fatto a dimenticarmelo? Ora vedo di nuovo la strada, alla fine della quale c’è il più bello dei mari, quello che non ho ancora attraversato.