Hanno la sindrome di MacGyver: aggiustano e riadattano i giocattoli, i propri e quelli dei figli, come se dovessero servirgli per sempre. Anzi, di certi giochi sono i veri titolari: come i trenini elettrici che, ormai si sa, sono il giocattolo preferito degli ultrasessantenni. E non si staccano mai dallo zainetto. Emblema universale di quell’adolescenza, contagiosa e inguaribile, che non prevede distinzioni: di età, di genere, di look, di ruoli.
Per le generazioni, uno stile di abbigliamento, un miscuglio di interessi e di aspettative, che va oltre la giovinezza. Anzi, che non finisce più.
Padri e madri che faticano a fare i genitori. Ragazzi usciti in fretta dall’infanzia, che arretrano invece dinanzi alle responsabilità: la difficoltà di crescere coinvolge tutti. E mentre l’età adulta si trasforma in una fase virtuale, una meta puramente teorica, la maturità si allontana a tempo indeterminato.
Del resto, non c’è rito di passaggio che trattenga qualcuno alla sua età: né il lavoro, che non è più per sempre, né il matrimonio, che anzi è statisticamente destinato a finire in un caso su quattro (dati Istat 2015). E neppure la nascita dei figli, pochi e non più concentrati in una sola stagione della vita. Tra coppie che si ricostituiscono e famiglie allargate, padri amici dei figli e madri che sembrano sorelle delle figlie, un nuovo paesaggio umano si delinea: inchiodato al presente, allo spirito del gioco, allo scambio di identità. «La catena cronologica si è spezzata con violenza, depotenziando il passato e il futuro», scrive il poeta Guido Mazzoni nel saggio “I destini generali” (Laterza), dedicato alla profonda metamorfosi delle masse occidentali negli ultimi cinquant’anni.
Generazione confusione
È la fine delle generazioni? «Sì, almeno per come le abbiamo sinora conosciute», sostiene lo psicanalista Massimo Ammaniti che, dopo aver per anni verificato nel suo studio i nuovi rapporti tra genitori e figli, ha scritto il saggio “La famiglia adolescente” (Laterza). «In passato esistevano rituali e compiti evolutivi chiari che scandivano il passaggio del tempo. La scolarizzazione, l’adolescenza, il riconoscimento delle proprie attitudini e quindi il lavoro, poi il matrimonio, la formazione di una nuova famiglia erano tutte tappe che segnavano i cambiamenti dell’individuo», spiega: «A un certo punto i genitori concludevano il circolo fertile, e i figli si sentivano autorizzati a entrare nel mondo adulto. Oggi tutto questo è saltato: la famiglia tradizionale è sempre meno comune, i figli sono pochi, e gli spazi degli uni e degli altri coincidono: mentre prima la vita dei figli e dei genitori era anche fisicamente separata, oggi la condivisione è così ampia da rendere le distinzioni molto sfumate: parliamo liberamente di qualunque argomento con i figli davanti; insieme si viaggia, si va fuori con gli amici; i figli assistono ai nostri pasticci sentimentali e da loro pretendiamo il racconto delle prime esperienze sessuali. Li difendiamo con i professori, li coinvolgiamo nei nostri problemi». Sui social tutti insieme, o«abbarbicati sullo stesso motorino», aggiunge Ammaniti: «In più, il mito che non si debba invecchiare mai fa sì che tutti si sforzino di mantenersi giovani». E l’apice è intorno ai cinquant’anni, quando la vitalità dei figli sembra risvegliare quella dei genitori: «Si delinea un magma indistinto, nel quale gli adulti non sono disposti a investire sul futuro dei figli, e dunque a prendersi, finalmente, la responsabilità di crescere».
Sindrome da “Forever young” che anche il cinema coglie, con l’ultimo film di Fausto Brizzi, uscito il 10 marzo.
Fuga dalle responsabilità
Il punto è esattamente questo: c’era, in passato, l’età della responsabilità; oggi per tutti il desiderio è uno solo: «La ricerca della felicità», nota Ammaniti: «La realizzazione di sé a qualunque età, costi quel che costi». Senza mai la sensazione di essere fuori tempo massimo. Perché se ogni esperienza è reversibile, tutto può – ancora e per sempre – succedere.
Del resto, gli adulti-adolescenti hanno, più o meno inconsciamente, un nemico preciso da tenere lontano: l’idea che la maturità sia un cumulo di sogni spezzati, di matrimoni finiti male, di insoddisfazione sul lavoro, di progetti non realizzati: la rappresentazione che ne hanno dato i grandi scrittori del Novecento, da Saul Bellow a Philip Roth. A sostenerlo è lo storico americano Steven Mintz in The Prime of Life: A History of Modern Adulthood(Belknap Press). Un excursus sul mondo adulto contemporaneo, con tanto di j’accuse contro la letteratura, ma anche contro la cultura rock, con i suoi imperativi a una giovinezza per sempre. La conclusione è la stessa di Ammaniti: siamo tutti in deficit di responsabilità. Perché cosa significa essere adulto se non accantonare il solo pensiero di sé e assumersi la responsabilità degli altri: un partner, i figli, i propri genitori?
“I miei genitori non hanno figli” scandisce, paradossale sin dal titolo, il protagonista dell’ultimo romanzo di Marco Marsullo (Einaudi. Stile libero), figlio unico di una famiglia sgangherata dove ognuno rivendica realizzazione e autonomia. «Del resto, i genitori sono uguali ai bambini, bisogna prenderli come vengono», gli fa dire l’autore, capofila di un’affollata generazione di scrittori che, contemporaneamente, sta raccontando storie di padri e figli, entrambi fragili e confusi.
Una società senza adulti
«Gioventù e vecchiaia sono due “stati fisici”, legati al tempo calcolato sugli anni della vita. O sono stati psichici e spirituali, indipendenti dall’anagrafe?». Se lo chiede anche Gustavo Zagrebelsky, nel saggio Senza adulti(Einaudi). Per il giurista, viviamo in un mondo dove non esiste più quell’età che si è sempre posta tra la prima – la giovinezza – e l’ultima – la vecchiaia: «Il tempo della pienezza in cui non si è più giovani, con le proprie illusioni e i propri trasporti generosi ma fragili, e non si è ancora vecchi, con il proprio disincanto, le proprie disillusioni e frustrazioni». Il tempo della maturità è ciò che manca: siamo sempre giovani e poi, improvvisamente, vecchi.
«Guardiamoci attorno», scrive Zagrebelsky: «Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazioni e chirurgie; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella cultura giovanile dei figli».
La paura di invecchiare ha cancellato l’età di mezzo, come ritiene Zagrebelsky? Siamo un “popolo senza età”, ha sostenuto su “la Repubblica” il sociologo Ilvo Diamanti, rivendicando il “privilegio” di invecchiare e riportando un sondaggio dell’Osservatorio europeo sulla Sicurezza: il 19 per cento degli italiani pensa che la giovinezza possa durare anche oltre i 60 anni; il 45 per cento che finisca tra 50 e 60 anni. Non è un Paese per giovani. Ma, a quanto pare, neppure per vecchi.
«Siamo davanti alla ridefinizione delle generazioni. Al momento, c’è un enorme vuoto di regole e di valori», nota l’antropologo della contemporaneità Marino Niola: «Abbiamo alle spalle una scansione in generazioni che non corrisponde più al contenuto. Il contrassegno generale è sempre stato numerico; il timer era l’età: oggi gli scatti sono completamente diversi. E in certi intervalli le generazioni convivono». Una commistione non priva di conseguenze. «Pensiamo solo alla trasmissione della cultura», sottolinea Niola: «Prima la differenza tra generazioni era pedagogica: gli adulti insegnavano ai giovani la vita, il bene e il male. Oggi le agenzie educative annaspano. La famiglia toglie alla scuola ogni autorità: basta guardare al ruolo nefasto dei genitori sui consigli di classe. Il risultato è un popolo di bamboccioni, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa. Però bamboccioni sono anche i genitori. Papa Wojtyla ci aveva ammonito: “I genitori non devono essere amici dei figli”. Succede tutti i giorni: si baratta un’amicizia piaciona con un ruolo genitoriale vero fatto anche di “no”, impedendo ai figli di scoprire la legge e di crescere». Del resto, se non c’è alcuna distanza coi figli, come potrebbero i padri proporsi in modo credibile in un ruolo autoritario tradizionale?
In cerca dei padri
Prendiamo Matteo Stella, uomo sommamente mite, il padre de “L’ultima famiglia felice”(Einaudi. Stile libero), romanzo di Simone Giorgi: «Non giudica, non addita nessuno, comprende, vive senza fare rumore», appagato dalla famiglia che ha creato. Mette in atto pratiche educative senza il bisogno di una conflittuale autorità: «Nessun urlo, si parla tutti insieme e si ragiona, nessuna occhiataccia, nessun divieto».
«La verità è che nessuno vuole passare per cattivo», chiarisce Giorgi: «Ed è un atteggiamento che riscontro specialmente nella gente più colta: i figli non devono vivere quell’autoritarismo che hanno vissuto loro. Devono avere la possibilità di fare ciò che a loro è stato negato. Un atto di irresponsabilità assoluta. E, insieme, di pigrizia: perché non dicendo mai di no non permetti a tuo figlio di crescere. Al contrario, è l’esercizio della seduzione: che piace alla politica, che non ha bisogno di imperativi, ma è fatta di continui tentativi di convincimento. In realtà, stai abdicando al tuo ruolo di adulto». L’idea del libro, dice ancora l’autore, è nata dal racconto drammatico di una storia vera: un ragazzo che si impicca dopo un no del genitore. Un divieto a sorpresa, però, e perciò ancora più straniante: perché quel figlio non era abituato a riceverne mai. «Se tu, padre, rinunci ad esercitare l’autorità, come la recuperi? E il figlio, se non ha opposizione, come forma il suo carattere?».
Si resta bambini. «Gli antichi racchiudevano con questo vocabolo il periodo della vita nel quale non si è imparato a parlare. Al momento starei uscendo dalla fase infantile. Come un bambino di nemmeno due anni, solo a quaranta sto incominciando a cacciar fuori le parole che mi servono». A parlare è il protagonista del nuovo romanzo di Lorenzo Marone, uscito il 7 marzo, “La tristezza ha il sonno leggero”(Longanesi). Che esattamente questo indaga: le famiglie, la difficoltà di crescere. Come Erri Gargiulo, quarantenne irrisolto: «Un uomo che si ritrova adulto senza volerlo. Ha avuto un’infanzia difficile, non ha imparato a esprimersi, ha percorso una strada che non era la sua. Gli manca il coraggio, è un perdente. Almeno fino a quando non prende la scossa: non è l’età o un presunto senso di responsabilità a farlo crescere. A rendere adulti è il dolore: fare i conti con qualcosa che non conoscevi; comprendere, di colpo, di aver sbagliato tutto. Questa scoperta può arrivare in ogni momento. Di fronte al dolore, Erri prende in mano la sua vita».
Esercizi di maturità
Un matrimonio che finisce. Oppure un lutto. È davvero il dolore che rende adulti? «Abbiamo rinnegato i riti. Ora ci mancano», riprende Simone Giorgi: «La stessa potenza della ritualità ce l’ha solo la tragedia, l’imprevedibile, la malattia che ti mette spalle al muro all’improvviso. Di fronte a un nemico vero, alla prossimità al dramma, lo choc riporta tutti alle responsabilità. Forse è la paura, quando non paralizza, a far diventare adulti. Nel rito tutto era previsto, celebrato e contenuto. Oggi è la catastrofe che risveglia con violenza». Abbiamo demandato alla vita di scegliere per noi. E la vita detta regola: «Di fronte a un doloroso imprevisto, la famiglia si riunisce. E ognuno ritrova forza e ruolo». Se tutto è reversibile, e rimette in gioco, può essere l’esperienza della morte a rendere adulti? «Non è detto: se uno non sa come affrontarla può ripiegarsi su se stesso e non farne un’occasione di crescita», risponde Ammaniti.
«È possibile, ma non è scontato», concorda Niola: «Intanto, perché facciamo continui tentativi di aggirarla: l’ossessione è la longevità, senza pensare alla qualità della vita che c’è dentro. E poi perché privatizziamo lo stesso rito funebre, rinunciando a un aspetto pubblico che aveva l’obiettivo di confortare, mettendo in scena il dolore. Oggi quella funzione è in parte assolta dai social network: ma non è la stessa cosa che abbracciare qualcuno, asciugare una lacrima». Rimossa, negata, anche la morte esce così dal catalogo dei riti che scandiscono le fasi della vita. Dai diritti che ne derivano, a partire da quello di diventare autonomi: la morte del padre, nella cultura romana, era il momento in cui il figlio disponeva dei beni materiali. E non è priva di effetti sui diritti delle generazioni future una società che non matura mai e che anzi si modella sul giovanilismo. “Generation Uphill”, in salita, ha appena titolato “The Economist”, sottolineando come le potenzialità dei Millennials siano frustrate dai più anziani, in prima linea nel lavoro, nell’amore, nella vita di relazione.
«Noi siamo per la solidarietà tra le generazioni. Ma sono i più giovani quelli aggressivi», ribatte a “l’Espresso” Moses Znaimer, il canadese che ha fondato ZoomerMedia, network di tv, radio, giornali per over 45. In Italia di recente per Meet the Media Guru 2016, il tycoon spiega la missione di dare visibilità alla “nuova giovinezza” degli adulti: gli “zoomers”, cioè i “boomers with zip”, boomers con vigore. «Il conflitto priva la società di un enorme patrimonio di esperienza», dice. Paul Bühre, sedicenne berlinese autore di “Noi (e voi)”(Corbaccio), “WikiLeaks degli Sdraiati”, ritratto in presa diretta di una generazione sempre vista dagli altri, replica a distanza, senza sconti: «Piantatela di starci addosso. Di scaricarci le vostre insicurezze, di toglierci l’indipendenza». Diventate adulti. E cresceremo anche noi, forse.
(Fonte: Espresso, di Sabina Minardi)