Care Responsabili della Rubrica,
Ho 40 anni e una relazione di 8 anni alle spalle. Dopo tre anni di rapporto stabile, io, che all’epoca avevo 37 anni, ho cominciato a chiedergli un figlio: il mio orologio biologico ticchettava già da tempo, e anche lui era desideroso di metter su famiglia. Così, per un anno, abbiamo cercato un bebè, che, però, non arrivava. Ho convinto il mio compagno a fare tutti gli esami di accertamento per capire cosa ci fosse che non andava, ed è venuto fuori che il problema era suo: sterilità maschile grave. Di fronte alla sua tristezza, ho reagito con ottimismo e proattività: mi sono recata in un centro per l’infertilità della coppia e mi sono informata su cosa si potesse fare per risolvere il problema. Quando abbiamo scoperto che esiste una modalità di procreazione medicalmente assistita che ci avrebbe permesso con discrete possibilità di diventare genitori, abbiamo deciso di provare: io avrei dovuto sottopormi a una stimolazione ormonale, con relativa operazione per il prelievo degli ovociti e successivo transfer ovocitario, lui avrebbe dovuto fare una piccolo intervento per il prelievo del suo seme. Le possibilità di successo, vista anche la mia età anagrafica, erano del 20%, quindi avremmo dovuto mettere in conto vari tentativi per diventare genitori. Prima di cominciare la cura, una sera lui mi ha chiesto, con lo sguardo opaco, se davvero me la sentissi di fare tutto questo, dato che il problema era suo e io non ero tenuta a sottopormi a tutte quelle cure per causa sua. L’ho abbracciato forte e gli ho detto che pur di avere un figlio con lui avrei fatto questo e altro: che presto saremmo diventati una famiglia. Sono fatta così: quando amo, amo con tutta me stessa.
Il giorno del prelievo ovocitario ero serena, nonostante accanto a me vedessi donne spaventate, al loro ennesimo tentativo, e con scarse probabilità di riuscita. Mi sono detta tra me e me: ci provo massimo tre volte, poi se non va troveremo altre soluzioni. E, invece, sono rimasta incinta al primo colpo. Due settimane dopo il transfer, gli esami delle Beta erano positivi: nove mesi dopo è nata la nostra piccola, bellissima Principessa… Ma quello che Dio dà, poi a volte toglie: un anno dopo la nascita della nostra Principessa, il mio compagno aveva già perso la testa per un’altra. Adesso ci sono solo io a crescere nostra figlia e ancora mi chiedo: com’è possibile ripagare in questo modo un dono così grande? Non è giusto. Spero solo di riuscire a non trasmettere a mia figlia tutta la mia rabbia. Ditemi qualche parola di conforto, vi prego, perché per me è difficile accettare la realtà.
Miss M.
Cara Miss M.,
la tua storia mi ha emozionata, oltre che commossa. Credo che l’amore, nella sua massima espressione, sia proprio questo: donare a occhi chiusi e con tutto se stessi. Volere il bene per sé e per l’altro, in egual misura. Sei una donna passionale e altruista, si capisce dalle tue parole, ma su una cosa, forse, hai sbagliato, e mi permetto di fartelo notare solo perché tu possa rifletterci e non commettere lo stesso errore in futuro. Accecata dall’amore e dall’entusiasmo, forse anche esaltata dalla prospettiva di questa nuova avventura di diventare mamma, non ti sei fermata a osservare meglio chi avevi accanto. Era davvero pronto, a diventare papà? Lo voleva davvero? Da come racconti la tua storia, sei tu il soggetto attivo: tu che desideri un figlio, tu che fai fare a entrambi gli esami di accertamento, tu che contatti il centro di fertilità per la coppia, tu che sei quella ottimista anche nel sottoporti alle forti cure ormonali. Il tuo compagno, invece, è una pallida figura al tuo fianco e infatti, al momento della resa dei conti, abbandona la nave per salire su una scialuppa di salvataggio. Ne conosco tante, di donne come te: forti come rocce, ma poco attente a salvaguardare se stesse… Adesso siete in due, tu e la tua Principessa, a dovervi salvaguardare. Perciò, metti via la rabbia nei confronti di questo uomo che non ti ha mai meritata, alza il mento e sorridi, come sai fare benissimo, perché è tua figlia, adesso, ad aver bisogno della tua grande forza. E del tuo immenso amore.
Rebecca
Cara amica,
la sua lettera è un esempio concreto della forza delle donne! E della loro capacità di problem solving! C’è una difficoltà da superare? Si riflette, ci si documenta, ci si muove e, di solito, si trova soluzione. In tempi brevi, possibilmente. E’ così accade in casa, sul lavoro, negli affetti. Tante Speedy Gonzales in giro per il mondo, perennemente in movimento, con una velocità che gli uomini, impegnati sul fronte lavoro/carriera/business/se stessi, consumano diversamente. Bisognerebbe scoprire l’elogio della lentezza, invece, specie se si vuole camminare affiancate a un altro. E bisognerebbe sicuramente rallentare, per scoprire la piacevolezza dei dettagli, delle sfumature, dei contributi che, inaspettatamente, arrivano anche dall’altro. Lo insegni a sua figlia, senza farle sentire la rabbia e il rancore che nutre per suo padre. Si rilassi. In fondo lei ha esaudito un antico desiderio, dando carica al suo orologio biologico. Suo marito era in difficoltà a procreare non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. E verrebbe da pensare che non diventerà padre una seconda volta, con la nuova compagna. Rallenti, cara amica: le donne corrono da troppo tempo. E se vogliono affermare ruoli e poteri anche conquistati agli uomini, devono essere capaci di cambiare ritmo, e di incedere nella loro vita in modo calmo, regale, femminile e sicuramente vincente. Auguri!