Lo dice pure nella fiction che la Rai gli ha dedicato, Adriano Olivetti: la forza di un sogno, per bocca dell’attore Luca Zingaretti che ridà un volto alla sua originale figura di imprenditore e pensatore politico: “Non dovete confondere il comunitarismo con il comunismo”. Tra queste due visioni del mondo e della politica, nonostante l’apparente affinità semantica insita nel termine comune, c’è un abisso.
Alla comunità e alla sua pratica realizzazione nella vita sociale e politica Olivetti ha dedicato la sua intera esistenza. A differenza di quanti nell’ideale astratto comunitario hanno sempre intravisto, a seconda delle diverse fasi storiche e prospettive culturali e ideologiche, un mero simbolo da utilizzare contro l’individualismo e l’egoismo liberale, l’ingegnere di Ivrea la comunità l’ha interpretata in chiave realistica, passando dalle teorizzazioni astratte all’esperienza politica pratica, dal pensiero all’azione, dalla filosofia alla realtà. Un po’ come Owen, figura simbolo di un socialismo ottocentesco che voleva sperimentare, e non semplicemente teorizzare, Olivetti dava forma concreta all’ipotesi comunitarista: fondò, nel 1948, il “Movimento di Comunità”, per il quale fu anche eletto deputato nella III legislatura della Repubblica; svolse un’intensa attività di organizzazione culturale, mettendo in piedi le Edizioni di Comunità, grazie alle quali furono introdotte al pubblico italiano degli anni ’50 importanti testi a sfondo comunitarista, tra cui la traduzione di The Quest for Community, del sociologo conservatore Robert Nisbet; pubblicò diverse opere dedicate interamente al tema caldo e romantico della comunità, come L’ordine politico delle comunità dello stato (1947) e Società, stato, comunità (1952).
Il merito principale dell’infaticabile opera di Olivetti sta senz’altro nell’avere tentato di risolvere il problema antico della “definizione” della communitas, termine da sempre ambiguo e controverso. La comunità non è altro che il «diaframma umano fra individuo e Stato» – scriveva con una estrema chiarezza stilistica, facendo sua l’interpretazione realista della comunità, che va da Ferdinand Tönnies allo stesso Nisbet e che ha fatto della comunità un corpo reale e vivente, intermedio, appunto, tra lo Stato leviatanico e l’individuo atomizzato, un microcosmo di piccole, primarie relazioni personali che rapportano l’uomo al variegato mondo dei valori economici, morali, politici e religiosi.
La «comunità concreta» di Olivetti non era la comunità statale dei collettivisti, ma il piccolo nucleo sociale concepito sul modello della famiglia, come «unità di sentimenti» piuttosto che come entità politica, come «ordine concreto», radicato nella vita, nel lavoro, nella cultura. La comunità olivettiana, in altri termini, è territorialmente definita, vivibile, né troppo grande né troppo piccola, dove è possibile stabilire contatti diretti tra le persone e l’ambiente, che a tutte le attività umane fornisce efficienza e, soprattutto, rispetto della «persona», «della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori».
Diffidando di ogni forma di dogmatismo totalitario, Olivetti riteneva che la democrazia italiana del dopoguerra non si sarebbe affermata senza la diffusa consapevolezza che l’effettiva «esperienza umana» può conservarsi soltanto a livello della comunità naturale. La tendenza tipica delle culture collettiviste a liquidare i rapporti primari che stanno alla base della società civile ha come conseguenze negative immediate – ammoniva Olivetti – la «burocratizzazione dei rapporti sociali» e l’alienazione della società rispetto allo Stato. La soluzione offerta a tale riguardo da Jean-Jacques Rousseau dell’uomo che «è nato libero ma dovunque è in catene» si è rivelata inutile. La famosa espressione rousseauiana, infatti, secondo Olivetti, da una parte giustificava il razionalismo dogmatico, dall’altra sradicava l’uomo dalla tradizione, dalle credenze e dai costumi, a vantaggio della totale liberazione dell’individuo, prestando il fianco alla deriva totalitaria. Riformulando la nota dichiarazione di Rousseau, Olivetti affermò allora che l’uomo nasce libero ma non certo nel deserto. Egli viene al mondo in un determinato territorio, come membro di una comunità, di un particolare ambiente storico e culturale. Cosicché la sua libertà abbisogna di uno spazio vitale e reale in cui esplicarsi spontaneamente nelle dinamiche di rapporti naturali e diretti. Questo spazio di libertà, secondo Olivetti, è la comunità dei rapporti immediati, cioè non mediati burocraticamente, la comunità che ricompone «l’unità dell’uomo» garantendo la presenza costante e affidabile di quell’humus ideale in cui può articolarsi la libertà.
Contro le concezioni tecnocratiche dello Stato come vere e proprie «deviazioni del pensiero politico», contro il socialismo «scientifico» come «tragica presunzione» e contro la mentalità storicistica come produttrice di un potere razionale ma inesorabilmente impersonale, Olivetti, dall’alto di un’esperienza vissuta sul campo, propone un nuovo tipo di rappresentanza, una sorta di “terza via” tra la «democrazia autoritaria dei partiti cattolici» e la «democrazia progressiva dei partiti comunisti». Si tratta della «democrazia integrata», una forma nuova di rappresentanza, «più forte, più efficiente della democrazia ordinaria», in grado di coniugare l’uguaglianza necessaria con la libertà individuale e di integrare, nella società civile, gli eletti con i cittadini. Una democrazia – diceva Olivetti – che non preserva i cittadini dal pericolo dell’incomunicabilità o della mancanza di conoscenza tra rappresentanti e rappresentati non è affatto democrazia. Ne L’ordine politico delle comunità è scritto chiaramente che solo una riorganizzazione dello Stato in senso comunitarista e federalista può garantire un rapporto di conoscenza diretta tra eletto e cittadino, due figure altrimenti mimetizzate nella “massa” tanto cara ai regimi parlamentari. «Gli eletti di una Comunità – scriveva Olivetti – non potranno certo conoscere personalmente i centomila componenti della comunità stessa. Viceversa costoro conoscono assai bene le vicende private di quelli, i tratti del loro carattere, la loro competenza generale o specifica».
Sulla base di questi assunti, il pensiero politico di Olivetti non può che sfuggire a certe letture che cercano oggi di tirarlo dalla parte dell’utopismo di sinistra, come quella di Stefano Rodotà, che nella sua “Presentazione” nella recente ristampa di Democrazia senza partiti, iscrivendo l’autore nel solco del costituzionalismo del 1789, parla di Olivetti come di un leader visionario, che crede nella «rivoluzione della dignità» ed è «convinto della necessità di una progettazione a tutto tondo di una nuova società». Il comunitarista piemontese rimane a tutti gli effetti un pensatore e un organizzatore politico realista, animato come è dalla consapevolezza che qualsiasi ideologia totalizzante della società, qualsiasi progetto di centralizzazione politica, qualsiasi organizzazione burocratica dello Stato diversa dal decentramento comunitarista sia da considerare come un intralcio tanto alla democrazia quanto alla libertà stessa della “persona”, che nella sua comunità naturale trova non il pericoloso fardello di «volontà parziale» che Rousseau e i suoi seguaci collettivisti si sono affrettati a mettere al bando a vantaggio esclusivo dello Stato “totale”, bensì la sua ragion d’essere, la sua libertà, la sua identità.
La comunità di Olivetti, in definitiva, ben lungi da qualsivoglia accostamento al riformismo di matrice statalista, somiglia molto al «piccolo patriottismo» di cui parlava Edmund Burke in aperta contrapposizione alle tendenze omologanti del massimalismo francese, da cui partì, guarda caso, la caccia a tutte le forme di comunità umane, additate sin da subito come le principali nemiche dello Stato moderno.
di Spartaco Pupo