Noi e il nostro corpo? Resilienza e plasticità!

Pubblicato il 25 Aprile 2018 in , , da Marina Piazza

Il corpo comincia a parlare, a reclamare cure, non esercita più la funzione di mediatore tra noi e il mondo, cambia la percezione della facilità del recupero. E questa sensazione complessiva porta direttamente al restringimento dei possibili: fino a ieri andavo allegramente in bicicletta e adesso mi fa paura… ho sempre amato fare lunghe passeggiate, ho sempre camminato a piedi per l’impazienza di aspettare l’autobus… ho fatto migliorie in casa, ma avrò tempo sufficiente per godermele? Il corpo diventa protagonista, diventa stregone, senza regole, assume su di sé e sulla sua possibile défaillance tutta l’inquietudine verso il futuro.

Aver vissuto all’insegna dell’autodeterminazione come stile di vita e valore in sé e perdere questa prerogativa fa paura. E’ una minaccia peggiore della morte. La condizione dei grandi vecchi e vecchie di “sentirsi inutili”, abbandonati alla volontà e alle mani di altri, fa paura, erode una visione positiva del futuro, lo blocca (“e se dovessi dire come mi immagino tra vent’anni, dico che vorrei immaginarmi morta” dice una donna di 65 anni).

Forse non è tanto la malattia in sé – che può venire e anche andarsene – a essere minacciosa, ma il pensiero della malattia, la paura di essere entrate in una strada obbligata e in pendenza.

Paura, ansia di perdere il controllo su di sé. Questo tipo di ansia diventa una sorta di profezia che si autoavvera e finisce per innescare una trappola fatale: la paura di invecchiare accelera il processo di invecchiamento del cervello e del corpo, il che, rendendo reale il motivo della paura, fa  crescere l’ansia.

Ma questo è un pensiero da cestinare: perché inserisce il tema della competizione con se stesse, con le se stesse di una volta. Non la competizione va esercitata, ma la consapevolezza di essere entrate in una nuova fase di vita.La consapevolezza di una sorta di fragilità.

Potremmo destreggiarci tra due atteggiamenti. Sentirsi ammalorate, consapevoli di vivere una mala ora, un tempo che non ci dà scampo. L’idea che un malore o un malanno si è abbattuto su di noi per una fatalità avversa, ma forse anche per l’incapacità di reagire a questo pericolo con la necessaria forza d’animo e, per così dire, con prontezza e capacità operativa.

Oppure resilienti, cioè in grado di accettare di rendersi vulnerabili agli eventi, facendo della propria vulnerabilità una leva d’azione; un agire che nasce dal vuoto, dalla perdita di senso e di ordine, ma che è orientato all’attivazione di contesti nuovi e alla generazione di mondi possibili. Un’apertura ariosa, se così si può definire, certamente non facile, non data naturalmente, definendo appunto un possibile – anche se incerto – equilibrio tra potenza e impotenza, tra espansione e limite, tra autonomia e dipendenza. Potremmo anche chiamarla plasticità.

E c’è una piccola astuzia per evitare di essere fagocitati dalla paura ed è riconoscere  al corpo una funzione vitale, positiva.  Respingere la paura del “corpo stregone” per avvicinarsi a un’immagine di “corpo collaboratore”, a un’immagine di corpo vigile, che vuole guarire. E quindi volerlo anche noi, e agire di conseguenza, con una serie di “contromosse” per assecondarlo, ascoltarlo. Attivare azioni di manutenzione, come scriveva Umberto Veronesi, quando aveva 90 anni, “la manutenzione del corpo c’è sempre, o almeno dovrebbe esserci, ma mentre da giovane è un dettaglio della vita, da vecchio diventa un’attività prioritaria”.