Per me i libri che entrano nella short list del Booker Prize, per non parlare di quelli che lo vincono, sono un ottimo punto di partenza quando devo scegliere qualcosa da leggere. Il Booker Prize ha consacrato diversi autori che ho amato da subito, e seppure sia un premio nazionale ha un respiro molto più ampio di altri, senz’altro del nostro Strega, ma anche del pur prestigioso Goncourt francese. Forse perché, essendo la Gran Bretagna un ex impero e quindi un paese con molti e forti (seppure discussi e discutibili) legami con territori culturalmente molto lontani e diversi, da ormai un bel po’ di anni la sua letteratura è mista, aperta, contaminata. C’è una prevalenza di anglo-indiani, ma ci sono autori che vengono da tutto il mondo e sono cresciuti in Gran Bretagna, che danno luogo a una molteplicità di voci e di temi.
Il Booker Prize del 2020 è scozzese, ed è un esordio. Ma che esordio! Alle volte mi stupisco, di quanto pur leggendo da tanti anni si possa continuare a scoprire scrittori e libri degni di meraviglia. Anche se nel caso di “Storia di Shuggie Bain” la meraviglia non sta nella storia, o nell’ambientazione o nella scrittura, ma nella combinazione dei tre e nell’effetto che hanno: fin dalle prime pagine il protagonista Shuggie è lì di fianco a te, e vorresti abbracciarlo e fare qualcosa per lui. E man mano che la storia si dipana e gli altri personaggi si vengono a sedere di fianco a te, man mano che Shuggie cresce e diventa un adolescente, vorresti continuare ad abbracciarlo e a fare qualcosa per lui.
Non che Shuggie da solo non se la sappia cavare, anzi. Sua madre è alcolizzata, suo padre lo ignora. I nonni muoiono quando lui è piccolo, la sorella più grande emigra in Sud Africa e solo il fratello più grande lo segue e lo aiuta un po’. Shuggie vive a Glasgow, in quella desolata Glasgow degli anni Ottanta, quando Margaret Thatcher stava attivamente smantellando l’industria e in particolare quella della costruzione navali di cui viveva quella parte di Scozia, quando sfidava i minatori e chiudeva le miniere, e quando sosteneva che “there is no such a thing as society”, la società non esiste. Infatti i legami sociali, sotto i colpi della disoccupazione, dei sussidi dati a pioggia e senza criterio, dell’alcool e della disperazione, i legami sociali sono fragili, fragilissimi. Spesso si dissolvono e lasciano vuoti incolmabili.
Ma Shuggie, nonostante tutto, ha una sua dirittura morale, ha una sua dignità, un suo parlare forbito, un suo coraggio. È uno di quei bambini che si trovano ad essere responsabili dei genitori. Sua mamma Agnes, donna molto bella, molto desiderata dagli uomini, anche molto amata da bambina, non ce la fa. Non ce la fa a sopportare che gli uomini la desiderino e non la amino, non ce la fa a convivere con lo squallore intorno a lei, non ce la fa neppure a sopportare la dedizione di Shuggie. La sua infelicità non può essere curata da nessuno, i suoi desideri sono troppi, la sua fame di affetto anche, e alla fine non resta che l’alcool. Neppure l’amore incondizionato di Shugghie la salva. E se è vero che nessuno si salva da solo, è anche vero che nessuno può salvare nessuno.
Agnes ha passato il confine tra il tener duro e resistere e il lasciarsi andare. Ha provato a tornare indietro, e per un certo periodo ce l’ha anche fatta. Per un anno è stata lontana dall’alcol e Shuggie ricorderà quell’anno come l’unico in cui sembrava che fossero felici. Ma poi è ricascata di nuovo, ed è scesa ancora più in basso e non ha neanche più trovato la forza per immaginare, di riprovare a uscire dall’alcolismo. E mentre leggiamo il romanzo, e ci avviciniamo al cuore dei protagonisti, alle loro debolezze e alle loro grandiosità e alla loro capacità di resistenza, ci rendiamo anche conto che quel confine, quel bordo sottile tra “non ce la faccio ma ci provo con tutte le mie forze” e “non ce la faccio e vada come vada”, quel passaggio verso l’abbandono all’alcol, alla droga, alla depressione, alla deriva della propria vita, quel confine e quel passaggio valgono anche per noi. Li abbiamo conosciuti, ci siamo passati, può darsi che ci passeremo ancora. Siamo riusciti a restare al di qua, e speriamo di riuscirci ancora. Ma sappiamo che non siamo diversi, che potremmo essere Agnes, potremmo diventare Agnes.
Credo sia questa la grande forza di questo romanzo. In cui nessuno viene giudicato, ma tutti vengono accolti nel racconto, con il calore della comprensione, con la compassione, con l’accettazione dell’impotenza, del fallimento, della sconfitta. In un mondo in cui c’è spazio solo per i vincenti, in cui tutti vengono misurati e valutati sulla base del successo, in cui quando non si può si finge sui social, un romanzo di compassione e comprensione è come un balsamo sulle ferite che tutti abbiamo, magari ben cicatrizzate, magari ben accettate ed elaborate, ma che ferite sono state. E fa pensare che noi umani, orrendi e indegni come spesso siamo o possiamo essere, abbiamo dentro di noi anche il bello e il buono. E il bello e il buono possono fiorire nel peggiore dei posti, nelle condizioni più desolate e nelle circostanze più deprimenti. Se “Storia di Shuggie Bain” può sembrare un libro triste, e per certi aspetti lo è, è anche un libro di profondo conforto. Profondo davvero. E di libri così non ce ne sono tanti.
È il 1981: Glasgow, un tempo fiorente città mineraria, sta morendo sotto i colpi del thatcherismo e i suoi abitanti lottano per sopravvivere. Agnes Bain si aspettava di più dalla vita, ha sempre sognato e desiderato una casa tutta sua e un’esistenza che non fosse precaria. Lei, che un tempo è stata bellissima, è ormai una donna delusa avvolta in una pelliccia di visone spelacchiata. Quando il marito, tassista e donnaiolo impenitente, la abbandona, si ritrova con i suoi tre figli in balia di una città devastata dalla crisi economica. Mentre la donna si rifugia sempre più spesso nell’alcol, i figli fanno del loro meglio per prendersene cura, ma a uno a uno sono costretti ad abbandonarla, per riuscire quantomeno a salvare se stessi. A non perdere la speranza rimane solo Shuggie, il figlio minore, da sempre protettore e vittima di Agnes, che si muove circospetto in mezzo ai deliri etilici della madre. Ma anche Shuggie ha i suoi problemi: nonostante si sforzi di essere come gli altri, lui è diverso: ben educato, esigente, pignolo e un po’ snob, è una creatura completamente fuori luogo nello squallore disperato della Glasgow di quegli anni, uno strano bambino che parla come un principe.
Buona lettura!