Paolo Nori studia la letteratura russa da sempre. E racconta in particolare in “Sanguina ancora” la vita e i romanzi di Dostoevskij, e in “Vi avverto che vivo per l’ultima volta” la vita e le poesie di Anna Achmatova
In principio fu il titolo. “Vi avverto che vivo per l’ultima volta“. Non vi avrebbe fermato qualunque cosa steste facendo, un titolo così? E quella copertina con la foto di Anna Achmatova bellissima, ma la fotografia è sciupata, e la costa del libro è rosa. Rosa pastello. Non ce ne sono tanti di libri così. Poi certo l’estetica non basta. Ci sono libri bellissimi fuori che non lo sono altrettanto dentro. Questo invece è coerente, bello fuori quanto bello dentro. Che gioia. E pensare che stiamo parlando di Russia. Uno degli argomenti a cui meno viene da associare la gioia. Se non che stiamo parlando di letteratura russa. Che anche quella non si associa alla gioia. Ma alla meraviglia, al fascino, alla passione sì.
Paolo Nori si può dire che studi la letteratura russa da sempre. Da quando, come racconta nel precedente romanzo “Sanguina ancora”, scoprì che Dostoevskij non solo lo faceva sentire meno solo, ma poteva dare un senso alla sua vita e aprirle le porte del mondo della letteratura, oltre che di quella porticina privata che dà accesso al nostro io e al nostro rapporto con noi stessi. Da quel giorno Nori non ha più abbandonato la letteratura russa, e oltre a tradurla ha scelto di raccontarcela a modo suo, in dei romanzi che mescolano magicamente la sua voce e quella dei grandi russi (che alle volte sono ucraini, certo, gli assetti geopolitici dei paesi cambiano in continuazione). Sì, Nori racconta di sé, della figlia che chiama Battaglia e della compagna che chiama Togliatti (e devo dirvi che per me basterebbero questi due battesimi per farmi leggere qualsiasi cosa lui scriva), delle sue corse e delle sue letture, dei suoi viaggi in Russia, delle sue lezioni e spesso semplicemente delle sue giornate.
Ma poi racconta, in “Sanguina ancora”, la vita e i romanzi di Dostoevskij, e in “Vi avverto che vivo per l’ultima volta” la vita e le poesie di Anna Achmatova. E ce li fa sentire presenti e vivi, che respirano e soffrono e si tormentano e scrivono di fianco a noi, nell’appartamento accanto si potrebbe dire. Possiamo sentire i loro strepiti quando si arrabbiano, le risate quando ne fanno, ma soprattutto il respiro, ovvero il senso profondo della vita, a cui i grandi scrittori sanno attingere. Per fare sì che poi anche noi lettori possiamo avvicinarcisi.
Prendiamo Anna Achmatova. Il romanzo non a caso ha per sottotitolo Noi e Anna Achmatova. Anna Gorenko era un grande poeta. Non poetessa. Proprio poeta. Professione peraltro disprezzata da suo padre, che quando seppe che Anna la praticava le chiese di “non mischiare il nostro cognome con queste faccende disonorevoli”. E lei diventò Anna Achmatova. Era bellissima e aveva una presenza così forte e intensa che quasi non ci stava nelle stanze in cui entrava. Le riempiva, quelle stanze, di qualcosa di impalpabile eppure percepibile. Ha vissuto negli anni della rivoluzione sovietica, del terrore staliniano, delle deportazioni. Ha sofferto il freddo e la fame, il dolore delle perdite e delle delusioni. Ha fatto matrimoni sbagliati, detto cose che non andavano dette, e scritto delle poesie che resteranno per sempre. Non ha mai dubitato del suo talento e della sua arte, che valevano i sacrifici e le rinunce.
Poi prendiamo Paolo Nori, uno scrittore, quanto grande spetta ai posteri dirlo. Ha 60 anni e sta sui social, soprattutto su Instagram, con il suo viso espressivo e quell’aria sempre un po’ perplessa. Ha scelto, o forse gli è venuto e l’ha sentito suo, uno stile molto diretto, come se con il lettore stesse facendo una passeggiata, chiacchierando amabilmente e passando pure un po’ di palo in frasca, come si fa quando si conversa con gli amici senza pensare, in spontaneità. In questo romanzo ancora più che in Sanguina ancora, racconta soprattutto il complesso rapporto che lo lega alla Russia e alla letteratura russa. Con un certo coraggio, bisogna dire, visto che in questo momento parlare di Russia è difficile e pericoloso.
Nori ha toccato con mano l’effetto indesiderato della censura: quando, il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina l’università statale di Milano Bicocca ha comunicato che avrebbe sospeso le sue lezioni sulla letteratura russa, il profilo di Nori sui social è diventato bollente e tutti volevano parlargli e chiedergli cosa ne pensava, non solo di quello che era successo ma anche della guerra, dell’Ucraina, della posizione dell’Occidente. Quasi che essere un conoscitore di letteratura russa rendesse esperti di politica internazionale così, per osmosi. È vero, i social si muovono per bolle e le bolle si sgonfiano con la stessa rapidità con cui si sono montate. Ma questa notizia in particolare è dilagata molto al di là dei social e ha dato luogo a considerazioni e riflessioni intelligenti, oltre alle sciocchezze che il genere umano non può fare a meno di produrre. Abbiamo scoperto la nostra ignoranza sulla vera provenienza degli scrittori che chiamiamo russi: molto di loro sì, in effetti sono ucraini, ma di quando l’Ucraina non era indipendente. Abbiamo riscoperto che la letteratura prescinde dalla geografia, e che la grandezza di uno scrittore trascende la sua lingua e la sua appartenenza. Abbiamo ribadito che leggere è un’attività degna indipendentemente da quello che si sta leggendo. E che le valutazioni di oggi sono diverse da quelle di ieri e da quelle di domani.
Mi verrebbe da dire che abbiamo scoperto l’acqua calda, ma chissà perché ogni tanto va riscoperta, l’acqua calda. Ma non è di questo che sono grata a Paolo Nori. Gli sono grata per il calore che mette nella sua scrittura e che ci arriva così diretto e immediato. Per le riflessioni che ci porge con garbo e ironia, lasciandosi guidare dal dubbio invece che dalle certezze. E per l’amore che rinnova costantemente verso la letteratura. Alla quali sì, dobbiamo essere grati se siamo qui, a leggere e scrivere, vivi e pensanti. Buona lettura a tutti.
Paolo Nori, Sanguina ancora
Tutto comincia con Delitto e castigo, un romanzo che Paolo Nori legge da ragazzo: quel romanzo, pubblicato centododici anni prima, a tremila chilometri di distanza, apre una ferita che non smette di sanguinare. «Sanguina ancora. Perché?» si chiede Paolo Nori. La risposta è in queste pagine, in cui da una parte Nori ricostruisce gli eventi capitali della vita di Fëdor M. Dostoevskij, dall’altra lascia emergere ciò che di sé, quasi fraternamente, Dostoevskij gli lascia raccontare.
Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta
«E noi, che cosa stiamo diventando? E io, cosa sono diventato?» si chiede Paolo Nori. E la risposta viene da una lontananza che in verità brucia distanze e porta con sé, come fosse turbine di visioni, di fatti, di sentimenti, e naturalmente di poesia, la vita di Anna Achmatova. «Vogliamo raccontare» dice Nori «la storia di Anna Achmatova, una poetessa russa nata nei pressi di Odessa nel 1889 e morta a Mosca nel 1966. Anche se Anna Achmatova voleva essere chiamata poeta, non poetessa, e non si chiamava, in realtà, Achmatova, si chiamava Gorenko; quando suo padre, un ufficiale della Marina russa, seppe che la figlia scriveva delle poesie, le disse “Non mischiare il nostro cognome con queste faccende disonorevoli”. Allora lei, invece di smettere di scrivere versi, pensò bene di cambiar cognome. E prese il cognome di una sua antenata da parte di madre, una principessa tartara: Achmatova.» Anna era una donna forte, una donna che, «con la sola inclinazione del capo – come ebbe a dire Iosif Brodskij, suo amico e futuro premio Nobel – ti trasformava in homo sapiens». “Suora e prostituta” per i critici sovietici, esclusa dall’Unione degli scrittori, privata degli affetti più cari, diventata, durante la Seconda guerra mondiale, la voce più popolare della Russia sotto l’assedio nazista, indi rimessa al bando, sorvegliata, senza mezzi. Ha profuso ostinazione e fermezza. Ha patito come patiscono le anime che, anche quando cedono, non cedono. Non ha smesso di scrivere, anche quando la sua poesia si poteva soltanto passare di bocca in bocca. Ha saputo, alla fine della sua vita, essere quel che voleva diventare: la più grande poetessa, anzi, il più grande poeta russo dei suoi tempi.Dopo essere entrato in quella di Dostoevskij, Nori entra in un’altra vita incredibile, ma questa volta ci rendiamo conto che, nell’avvicinare Anna a noi come siamo diventati, e noi alla Russia come è diventata, ci troviamo di fronte a un’urgenza crudele, a una figura che ci guarda, ci riguarda, e ci tocca più forte dove siamo ancora umane creature.