“Nel segno di Caravaggio”, di Stefano Zuffi
Skira
pagine 288
prezzo 38,25 €
Caravaggio: quando lo sguardo non basta
Si legge come una rivista di gossip, ma è denso come un trattato accademico. È “Nel segno di Caravaggio” (ed. Skira), libro di Stefano Zuffi che fa da guida alla mostra Caravaggio oltre la tela in corso alla Permanente di Milano fino al 27 gennaio. Da cui si può anche prescindere perché il testo di Zuffi ha una sua totale autonomia. Motivo? La scelta dell’autore di seguire un itinerario inedito dentro le opere del pittore, trasversale anziché cronologico. Partendo da alcuni dettagli o temi ricorrenti, persino da alcune “ossessioni” dell’artista. Ma andiamo con ordine e seguiamo lo studioso nel suo suggestivo percorso nell’estetica e nella poetica caravaggesca.
“Pittore e assassino, sullo sfondo solenne della Roma del primo ‘600, Caravaggio è uno degli artisti più appassionanti e potentemente espressivi della pittura europea. Vita sciagurata e arte sublime si combinano strettamente come avverrà, quasi tre secoli dopo, per Van Gogh” scrive Zuffi nell’introduzione. Premessa necessaria per entrare nell’atelier dell’artista la cui pittura «Indaga le grandi, eterne passioni dell’uomo: angoscia e tenerezza, sacrificio e peccato, orrore e bellezza, amore e morte». E qui sta il cuore della questione: perché Caravaggio è così “moderno”? Perché parla ancora all’uomo contemporaneo anche se sono passati oltre 400 anni da quando ha composto le sue figure sulla tela? Il “segreto” di Caravaggio è quello di assegnare a chi guarda le sue opere non il ruolo di semplice spettatore, ma di testimone oculare. La sua pittura entra così nella nostra vita. Ciò che viene rappresentato è come se stesse accadendo qui e adesso, interpellando perciò la nostra sensibilità, suscitando emozioni inedite, coinvolgendoci nella complessità del nostro essere attraverso l’attivazione di tutti e cinque i sensi. Non solo il semplice sguardo.
Un cesto da sistemare
Partendo da queste premesse, Zuffi raggruppa 55 opere di Caravaggio (su poco più di 70 in totale) e le analizza attraverso alcune tematiche (o costanti) che rappresentano a loro volta altrettanti fili conduttori per capire la tecnica e la personalità dell’artista. Al di là (o nonostante) le sue vicende umane, i suoi amori, le sue amicizie, il suo carattere e, perché no, le sue intemperanze. Si comincia con le Nature morte, genere innovativo nella pittura tardo cinquecentesca. «Caravaggio conferisce a ogni oggetto un intenso valore sentimentale. Grazie a lui la natura morta diventa un modo per affacciarsi ai misteri della vita, dello svanire del tempo, del senso stesso dell’esistenza». Sempre con quella capacità di coinvolgere lo spettatore (pardon: il testimone) attraverso l’attivazione di tutti im sensi. Prendiamo, per esempio, il piccolo, semplice e quasi dimesso Cesto di frutta dell’Ambrosiama di Milano. Mele, pere, fichi sin troppo maturi ci fanno quasi percepire il loro profumo per non dire il sapore, le foglie un po’ secche sembrano crocchiare sotto le nostre dita e quello sporgere del cesto appena un poco dalla mensola su cui è collocato ci spinge spontaneamente ad allungare una mano per rimetterlo a posto, per evitare che cada. Sorte che tocca anche allo sgabello su cui poggia il ginocchio San Matteo nella pala d’altare della Cappella Contarini in San Luigi dei Francesi, a Roma. In bilico al di fuori della base che dovrebbe sorreggerlo, tale è l’emozione del personaggio di fronte all’angelo che gli detta le parole da scrivere.
Fatti per uccidere
Lame e acciaio è il secondo capitolo, legato biograficamente al fatto che «Tra Roma e Napoli Caravaggio è stato ferito almeno tre volte e incarcerato per porto d’armi abusivo». Oltre, naturalmente, alla zuffa in cui uccide (oggi si direbbe forse per “eccesso colposo di legittima difesa”) Ranuccio Tomassoni, il 28 maggio del 1606. Episodio in seguito al quale il Merisi deve lasciare Roma con sulla groppa una condanna alla pena capitale. Lame e acciai compaiono in molti soggetti, biblici e non: Il sacrificio d’Isacco, le diverse versioni di Davide e Golia, i martiri di San Matteo, Santa Caterina d’Alessandria e San Giovanni Battista. Ma anche spade, picche, coltelli e pugnali portati da gentiluomini o soldati, carnefici o servitori. Insomma, un bel campionario di strumenti atti a ferire, ledere, uccidere che non possono lasciarci indifferenti.
Un cammino irto di pericoli
Non solo la vista, lo sguardo. I quadri di Caravaggio coinvolgono tutti i sensi. E proprio ai Sensi è dedicato il terzo capitolo che ci rivela come le tele del Merisi si possano anche ascoltare. Lo spartito che compare nel Riposo durante la fuga in Egitto, per esempio, non è di fantasia, ma riproduce il mottetto Quam pulchra es (Quanto sei bella) del compositore fiammingo Noel Bauldewijn il cui testo letterario rimanda al biblico Cantico dei Cantici. Un angelo lo esegue al violino, San Giuseppe gli regge il pentagramma e la Vergine si china assopita stringendo tra le braccia il Bambinello. Osservati tutti dal grande, umido occhio dell’asino legato a un albero. Un respiro di grande tenerezza, un momento di pace, appunto. Smentito però subito da altre annotazioni sensoriali: la ruvidità della paglia del fiasco poggiato al mantello di Giuseppe e, soprattutto, da quelle pietre aguzze e taglienti che circondano i piedi nudi del santo e dell’angelo. Il cammino è ancora irto di pericoli.
Una tragica fine
Teste mozzate (il quarto capitolo) è sicuramente qualcosa di più che un assillo per chi è condannato a morte in contumacia per decapitazione. E Caravaggio sembra quasi inseguire nel tempo questa sua ossessione fino a comporre con il sangue che sgorga a fiotti dalla testa mozzata del Battista il proprio nome nell’unica opera firmata. La tela più grande e, per certi versi, più raccapricciante. San Giovanni agonizza terra mentre il boia, che non è riuscito a recidergli completamente il capo, si china su di lui estraendo dal fodero la misericordia, il corto, affilatissimo coltello con cui completerà l’opera mentre un soldato indica il bacile che Salomé regge tra le braccia, protesa in avanti per accogliere il macabro trofeo. Dall’interno della prigione due reclusi osservano impassibili la scena, forse pietrificati dall’orrore, mentre l’unica nota di umanità viene dall’anziana fantesca che si porta le mani nei capelli. Tra un prima e un dopo: dalla testa mozzata di Medusa al Davide e Golia della Galleria Borghese di Roma dove Caravaggio si è ritratto due volte: ragazzo imberbe e pieno di speranze, trattenute da uno sguardo malinconico, e il gigante abbattuto in cui pare preconizzare la propria fine imminente.
Copie dal vero
Seguono tre capitoli pertinenti la corporeità, la fisicità dell’arte di Caravaggio, anche in questo primo, grande pittore “moderno”. Autoritratti nascosti, Modelli in posa e Gesti ed espressioni sono i temi scelti da Zuffi per entrare nel mondo caravaggesco con risultati inediti. La presenza di autoritratti, per esempio, a volte nei panni di un personaggio minore che illumina con una lampada la scena, rafforza il ruolo dello spettatore-testimone che l’artista assegna al suo pubblico. Riflettendosi in noi e inducendosi a rispecchiarci in lui. Per non parlare delle due grandi manifestazioni del “male di vivere” che il pittore ha riversato sulla tela attraverso le proprie sembianze: il giovanile Bacchino malato e il già citato volto di Golia tenuto sospeso a mezz’aria dal suo uccisore in una delle ultime opere. A riprova del metodo tutt’altro che improvvisato seguito da Caravaggio nella composizione delle sue tele sta la miriade di “citazioni testuali” disseminate nell’intero arco della sua opera da altri celebri pittori, soprattutto rinascimentali. Leonardo, Michelangelo, Tiziano sono solo alcuni dei “prestatori di forme”, citate tanto alla lettera quanto tradite nella sostanza perché ricollocate in un diversissimo contesto estetico. Basti pensare alla mano di Dio Creatore che genera Adamo nella volta della Sistina michelangiolesca e all’identico gesto di Gesù che chiama alla sua sequela il pubblicano Matteo nel quadro in San Luigi dei Francesi. Nell’esistenza e quindi nella pittura di Caravaggio, scrive Zuffi : «La dimensione della corporeità ha un ruolo centrale, maggiore rispetto alla speculazione intellettuale e spirituale». E proprio attraverso i corpi dipinti, i nostri spirito e intelletto possono elevarsi alla contemplazione non solo del bello e del vero di una pittura geniale, ma riflettere sul senso e il destino dell’esistenza umana.
Amici animali
L’ultimo capitolo è riservato agli umili compagni di viaggio dell’umanità nel corso dei secoli: gli Animali. Presenze canoniche nella simbologia cristiana (il montone e l’agnello per il Battista e il Sacrificio di Isacco, l’asino per la Fuga in Egitto, il bue per l’Adorazione dei pastori e così via), che Caravaggio a volte interpreta in modo straordinario togliendoli dal ruolo di presenze decorative per assegnare loro quello di protagonisti. È il caso del cavallo nella Conversione di San Paolo in Santa Maria del Popolo, ma anche della serpe schiacciata sotto i piedi di Maria e Gesù nella Madonna del palafrenieri che chiude il lungo excursus dello studioso con l’ultima immagine del libro. Zuffi dunque riesce nella (quasi) impossibile missione di non ricalcare orme già tracciate negli studi su un artista sin troppo indagato dagli storici dell’arte. Pregio non da poco, che il lettore anche meno avveduto è in grado di cogliere attraverso le puntigliose, anche se brevi, annotazioni che corredano ogni quadro. Mostrato all’inizio nella sua interezza e poi analizzato nel corso delle pagine nella densissima stratificazione di sentimenti e umori di cui è impregnato. Conoscenza e passione: le due cose che accomunano ancora Caravaggio e i suoi ammiratori.
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