Ci sono libri che spiazzano e disorientano e “L’isola del disinganno” è sicuramente uno di questi. Ma spesso dal disorientamento nascono riflessioni e ricerche che portano lontano, in posti di cui non si sapeva neppure l’esistenza. O a pensieri che non sapevamo di essere in grado di pensare.
Come prima cosa, questo romanzo ci conduce in un luogo di cui sapevamo a malapena l’esistenza, e ci conduce lì fisicamente, insieme alla protagonista Marcela, che lascia Santiago e sbarca a Punta Arenas, l’estremità estrema della Patagonia, vicino allo stretto di Magellano. Un luogo pieno di vento, in cui l’estate è luminosa ma fredda. Già i nomi ci evocano le letture di gioventù e le esplorazioni dei mappamondi, quando dicevamo ‘voglio andare qui’ e ‘voglio andare là’ e ‘voglio andare dappertutto’. Nomi come lo Stretto di Magellano, che già da solo evoca un universo dall’altra parte del mondo e della vita come la conosciamo.
A Punta Arenas vive il padre di Marcela, Miguel, ci si è rifugiato a un certo punto della vita, si è ricostruito un mondo in cui è a suo agio, anche contento. Quando lo incontriamo sta uscendo con degli amici per andare a pesca, di notte. Poco fuori dalle acque del porto dalla barca qualcuno grida che c’è un uomo in mare e come si fa nel mare l’uomo viene recuperato, è ancora vivo nonostante sia gelato. L’ipotesi più probabile è che si sia gettato da una delle grandi “calamarere” che solcano lo stretto di Magellano pescando calamari e preparandoli per la vendita. Si sa che le condizioni di lavoro e di vita su quelle navi sono spaventose. Lee è il giovane che è stato portato a riva e che Miguel decide di tenere a casa sua invece che denunciare alle autorità. È di fattezze orientali, forse cinese, e non parla nessuna lingua tranne la sua. Piano piano si riprende, ma tutto di lui continua a essere un mistero.
Un mistero che affascina sia Miguel che Marcela, che si rivolgono a Lee come se potesse capirli. Lee annuisce, guarda, ascolta. Non si sa che faccia di tutte le parole che gli vengono dette. Ma in qualche modo diventa l’interlocutore ideale per entrambi, padre e figlia, che ciascuno a suo modo si illudono anche di essere capiti, oltre che ascoltati. Il romanzo mescola questa narrazione con quella della vita di Lee sulla calamarera. E di questa parte mi ha colpito un aspetto: che nonostante le condizioni di vita siano orribili, e tutti patiscano la fame, i maltrattamenti, il troppo lavoro, il senso di sperdimento di essere in alto mare, la perdita della dimensione del tempo per i turni e le corvé; nonostante la mescolanza di provenienze geografiche e culturali e di storie personali alle spalle; nonostante le risse di tutti contro tutti che periodicamente si svolgono in sala mensa; nonostante tutto la convivenza pacifica è possibile. Gli esseri umani creano spazi e sprazzi di umanità dovunque.
E vivere in pace si può. Anche quando tutto intorno è fatica e sofferenza. Anche quando ci si capisce a stento con le parole. Anche quando la speranza è flebile e appesa a un filo invisibile e sfilacciato.
E in questo momento così difficile e triste, ricordarsi che gli uomini sono capaci di vivere in pace è importante. Molti di noi non possono fare nulla contro gli orrori che si stanno compiendo né per le persone che ne sono vittime. Ma ricordare che la guerra, il terrore, la persecuzione e l’abominio non sono il nostro destino, non sono qualcosa che per forza ogni generazione deve conoscere, ci può aiutare. I libri, nei loro modi insondabili e misteriosi, sono sempre lì a consolarci e a farci riflettere. Ringraziamoli, sempre, con i loro autori e tutti quelli che si adoperano perché vengano pubblicati e diffusi.
L’isola del disinganno, Paulina Flores
Marcela ha trent’anni, il cuore spezzato e un lavoro che odia. Dopo qualche notte d’insonnia e troppo alcol, decide di mollare tutto e di partire per un viaggio alla fine del mondo. Così, lasciatasi la capitale alle spalle, raggiunge suo padre Miguel a Punta Arenas, ultimo avamposto della Patagonia cilena. Ad aspettarla laggiù, oltre al vento del Sud e allo stupore del padre, c’è un ospite inatteso: un marinaio coreano di nome Lee, che Miguel ha salvato da morte certa nelle gelide acque dello stretto di Magellano. Il ragazzo non parla la loro lingua, è solo e disorientato, e soprattutto nasconde un segreto. Da cosa sta scappando? E cos’è successo sulla nave da pesca che l’ha portato fin lì? Con uno stile essenziale, poetico e crudo insieme, Paulina Flores torna a giocare con il reale in un romanzo che ha il ritmo di una serie tv coreana – con tanto di colonna sonora K-pop –, e ci riempie gli occhi di paesaggi sconfinati e il cuore di domande più grandi di noi. Sono le stesse che si pongono i tre protagonisti: così vivi da sembrare persone in carne e ossa, ognuno con pregi, difetti e incertezze nei quali il lettore non potrà che riconoscersi. L’isola del disinganno è la storia di una fuga, di un mistero da decifrare, di un’avventura, di tre solitudini che si incontrano in una terra imponente e magnifica, nell’istante in cui fare i conti con il passato sembra inevitabile.