Il cliente Busken è una denuncia feroce e a volte spassosa della brutalità della vecchiaia e del decadimento fisico e mentale. Misantropo, mitomane, Busken si ritrova di colpo ‘cliente’ di una RSA, tratto come un bambino
Che libro coraggioso. E originale. E divertente. E magnificamente scritto. Il cliente Busken, E. Busken, è un vecchio signore malandato, che ha troppo bevuto e troppo fumato nella sua vita, che non è più in grado di starsene da solo e quindi è stato ricoverato in una RSA, Villa Madeleine. È furibondo, dei dolori terribili alla schiena gli impediscono di camminare, un tremore di tutto il corpo gli rende impossibile qualsiasi azione deliberata. Ma mentre il fisico si rifiuta di obbedire a qualsiasi comando il suo proprietario gli rivolga, la mente e i pensieri di Busken sono vivacissimi, iperattivi, viaggiano a mille all’ora e spaziano senza limiti. Certo siamo vicini al delirio, ma solo vicini. E se, data l’età e il degrado di cui Busken è pur
consapevole, le parole vengono a mancare o si confondono, le si inventa, le si creano: neologismi, storpiature, nuove espressioni fioriscono per raccontare quello che la mente di Busken non riesce e non vuole fermare, un flusso di coscienza in cui si mescolano ricordi, desideri, ambizioni, imposture.
Ma nel quasi delirio di Busken, che ci diverte e ci meraviglia per la sua inventiva e generosità, emergono alcuni elementi inquietanti, che sono quelli che definiscono la condizione di “clienti” di una RSA: trattati come bambini scemi, i pazienti-clienti vengono chiamati con dei vezzeggiativi, invitati a giocare, a calmarsi e stare buoni. Il cibo è tagliato a pezzettini, a merenda ci sono i biscotti preferiti; coltelli e forchette e qualsiasi strumento potenzialmente pericoloso è bandito; le porte sono aperte e il personale entra senza
bussare. Si cerca di intrattenere i pazienti-clienti, con formule che vanno bene per tutti e quindi per nessuno. Di sicuro non c’è dolo, e il personale cerca di fare del proprio meglio, è competente, lavora sodo, si impegna.
Ma manca il rispetto.
Il rispetto vero, quello che viene dal riconoscimento che chi ci sta di fronte è un nostro pari. Non importa se ha perso la voce, la memoria, l’uso degli arti o i cinque sensi. Non importa se non riesce ad allacciarsi le scarpe, e se a tutti fa più comodo che porti un pannolone. Non importa se non riconosce più i suoi figli e solo la musica lo acquieta. La dignità non sta in quello che si riesce a fare o non fare. La dignità ci viene dal nostro essere umani, e la dobbiamo riconoscere e rispettare, a maggior ragione se chi ci è di fronte non ha modo di farsene carico o è addirittura impotente. Raccontandoci quello che passa per la testa del “cliente” Busken, Browers riesce a dare voce all’impotenza che tutti abbiamo sperimentato durante le malattie, e che tutti temiamo ci sommergerà quando saremo davvero vecchi e non più autonomi. Non a caso, se chiedete a un senior qual è la cosa che temono di più del diventare vecchi, vi risponderanno tutti “non essere più autonoma/o”. Perchè quello che ci racconta Busken è esattamente quello che succede nelle RSA. Che siano lussuose e bellissime in riva a un lago, o nella periferia di una città qualunque. Che la retta sia stratosferica o modesta. Lo stile è quello, perché è qualcosa che è diffuso nella nostra società. L’idea che i vecchi non solo siano inutili, ma che siano rimbecilliti. Che siccome sono bisognosi come lo sono i bambini, vadano trattati nello stesso modo. Peraltro sappiamo che è malsano anche trattare i bambini come essere inferiori: il fatto che non possiedano ancora alcuni strumenti, che stiano imparando le cose fondamentali, fa solo parte del loro essere piccoli. Mi ricordo quando facevo la quarta elementare, ci eravamo trasferiti in una nuova città e mia mamma ci aveva mandato nel negozio di alimentari vicino a casa per comprare la merenda da portare a scuola. La signora del negozio, sicuramente armata delle migliori intenzioni del mondo, ci ha accolto dicendoci “bei ciotolini, ma cosa vi posso dare di buono per riempire il pancino?”. Io e i miei fratelli ci siamo guardati disgustati, abbiamo comprato quello che dovevamo e poi ci siamo rifiutati categoricamente di mettere mai più piede in quel negozio.
La voce che Browers ha dato al “cliente” Busken, una voce piena di brio e di inventiva, è la voce che, ora che l’abbiamo conosciuta, potremmo attribuire a chi vediamo che ne è privato. La voce che potremmo immaginare quando ci troviamo di fronte a qualcuno di davvero vecchio e malandato, la cui vita interiore continua a essere vivace e in dolorosissimo contrasto con la vita esteriore. Sperimentiamo tutti, mentre invecchiamo, come la nostra anima resti sorprendentemente giovane mentre il nostro corpo pian piano si deteriora. È quell’anima che ci qualifica come umani. È quell’anima che è degna di rispetto. Oltre a essere una lettura bellissima, Il cliente Busken è un grande contributo a come rapportarsi con la vecchiaia, un tema cruciale nelle società come le nostre in cui il numero delle persone anziane supera costantemente quello dei giovani. E ne abbiamo davvero bisogno.
Il cliente Busken, di Jeroen Brouwers
Vincitore del Premio Libris, Il cliente Busken è il grande romanzo testamento di uno dei più importanti autori olandesi contemporanei, una denuncia feroce e a tratti spassosa contro la brutalità della vecchiaia e del decadimento fisico e mentale. Misantropo, mitomane, dipendente da alcol e sigarette, Busken si ritrova di colpo «cliente» di Villa Madeleine, ovvero intrappolato in una casa di cura dove ogni cosa viene rinominata secondo le mode del politicamente corretto, costretto a vivere con «vecchi rincitrulliti» e «carcerieri» che lo trattano come un bambino. Lui che a suo dire è un esimio latinista, neurochirurgo, ingegnere robotico, sommo poeta che redige i suoi trattati in un codice segreto su vecchi rotoli di carta da fax, quando i medici lo ritengono un semplice ex impiegato affetto da demenza. In un estremo atto di protesta Busken si è chiuso in un silenzio impenetrabile, fingendosi incapace di intendere e di volere, mentre dentro di lui le parole ribollono e scorrono a fiumi. Con un acume sorprendente, uno spietato humour nero e un selvaggio estro letterario, giocando beffardo con le nebbie sempre più fitte della sua coscienza e i problemi agli occhi che gli fanno vedere il mondo blu, Busken registra tutto ciò che accade, riflette sulla vita e la vecchiaia, commenta i medici e gli altri pazienti in provocatorie parodie della contemporaneità. E rievoca ricordi di un’infanzia senza amore e di una madre gelida e ostile che ha segnato la sua tormentosa esistenza nell’ombra, asserragliata dietro libri e fantasticherie, in costante fuga dal dolore, dalla paura, dal mondo. Opera spassosa e struggente, di una poesia sanguigna e amara, definita «un monumento eretto alla lingua», Il cliente Busken è l’atto di resistenza di un uomo al proprio tramonto e a quello di un’intera epoca culturale, un romanzo in cui risuona il Novecento di Joyce, Proust, Svevo, Canetti.