“Vivo ancora e ne sono abbastanza soddisfatto”, di Pio Iglesias

Pubblicato il 27 Giugno 2010 in , da Vitalba Paesano

“Vivo ancora e ne sono abbastanza soddisfatto. Certo non tutti i giorni nè tutti i momenti, ma sempre più spesso mi trovo soddisfatto di me e di come alla fine mi stanno andando le giornate. E comunque anche oggi sembra che sia andato tutto bene. Se poi ripenso, ma è un esercizio a cui mi dedico sempre meno in verità, a cosa mi succedeva fino a poche settimane (o mesi?) fa, allora non posso che essere ancora più soddisfatto. Nella mia vita passata, e intendo quella precedente a questa, da quando sono diventato povero e fuori moda, non più accettabile ai fornitori di merci e/o di servizi, tutto era diventato pericoloso e faticoso. Se non era la polizia erano i ragazzi che si annoiavano o anche altri randagi come me che cercavano una coperta, alcool, tabacco.

Alla fine, uno come me, magro ed emaciato per natura, minuto nell’ossatura, le prende da tutti e neanche riesce a scappare abbastanza veloce da risparmiarsi qualche calcio o pugno. Ho sempre avuto l’aspetto di un malato e se questo nella vita di successo precedente, si poteva camuffare e comunque farlo passare per le conseguenze di uno stakanovismo da manager di successo vecchia maniera, qui sulla strada salta fuori tutto, e il colorito giallastro da malato cronico, i capelli radi e spelacchiati, le macchie della pelle non predispongono la disponibilità del prossimo. Cerco di star distante più che posso dal prossimo, troppa prossimità è rischiosa per la mia vita.

Da quando ho iniziato questa vita randagia, dopo il crollo della mia rispettabilità socio-economico-religiosa, ho attraversato tutte le strade di questa immensa città, ho dormito male nei suoi affratti e angoli riparati e nascosti il più possibile. Se non ti vede, il prossimo non ti danneggia. E’ una delle leggi della strada, di quelle che si imparano per prime, e una del genere life saving. Ho trovato da mangiare tra i resti scartati dai ristoranti, sempre stando attento che mentre mi servo e scelgo, non esca qualcuno a scacciarmi, si può essere gelosi anche dei propri scarti. Il mattino lo dedicavo alla ricerca di cibo, in genere nelle tavole calde. Ero nella mia ultima vita, prima di avere questa in cui sono pulito, profumato e ho quasi sempre tre o più pasti al giorno, un randagio per cui era impossibile entrare in contatto con il denaro. Non potevo più fare il lavoro precedente e non ero adatto fisicamente ai lavori saltuari e a cottimo in cui sempre la proposta lavorativa riguardava cose pesanti da scaricare o caricare o trasportare da a a b.

Io non sarei riuscito a sollevare una di quelle proposte neanche se fossi stato il doppio fisicamente e avessi avuto molta più voglia di quello che avevo. Ero relegato nel mondo del non denaro, l’ecomia monetaria mi aveva scartato, ero inadatto a ricevere un salario. Come dire che puoi pure morire, a meno che tu voglia posticipare l’evento cercando di sopravvivere il più a lungo possibile sulla strada. E la strada era pericolosa e scomoda e fredda. Certo che per l’interesse che mi rimaneva nella vita, era il massimo che riuscivo a farmi fare. Al pomeriggio di solito riposavo nei parchi, facendomi una tana, appena possibile, in luoghi defilati. Niente di lussuoso, foglie e cartoni o giornali come giaciglio, una coperta a coprirmi anche d’estate perchè la terra è fredda come sa chi la conosce.  Se avevo schivato poliziotti, tutori, ragazzi, bande, ero già contento e mi rimettevo in marcia verso i ristoranti da cui mi servivo. Poi trovare un giaciglio sicuro dove addormentarsi dopo aver bevuto tutto l’alcool trovato nei bichieri dei bar o nelle bottiglie vuote. Posso dire di essermi bevuto, nella mia vita precedente, dei gran cocktails serali e mi hanno sempre conciliato il sonno e scaldato le ossa stanche, oggi bevo l’alcool che qui si trova in abbondanza, dicono che alla lunga fa male ma le cose lunghe non rientrano nei miei piani. Era l’unico momento della vita precedente in cui rallegrandomi per i pericoli scampati mi godevo attimi di felicità.

Poi un giorno sono passato per caso davanti ad un grande cancello di ferro battuto inopinatamente aperto su quello che mi sembro un parco disseminato di costruzioni più o meno tutte imponenti e bianche. Era già sera e io cercavo acqua, avevo sete e il razionamento dell’acqua in città aveva spento tutte le fonti accessibili e bisognava procurarsene con una certa urgenza. Così sono entrato nella grande struttura che avevo davanti. Dal mio punto di vista, il posto era pericolosissimo, dovevo trovare l’acqua prima che guardiani o cani mi convincessero del contrario. Invece l’acqua non c’era e mi sono inoltrato, la sera calava e il cancello che avevo trovato aperto era adesso chiusissimo. Cerco un riparo mentre studio la situazione. Alla fine riesco a spiare il posto e il movimento della gente per un intero giorno, nascosto tra i cespugli giganti del parco. Al mattino del secondo giorno, prima dell’alba, mi infilo in una entrata per merci, in una costruzione vasta e imponente. Mi trovo in un mondo di carrelli da trasporto parcheggiati malamente, un corridoio male illuminato che da su cortili interni, ne passo due pieni di container di rifiuti e merci accatastate in ordinato caos. I cortili sono pieni di porte e portoncini, li provo tutti e al secondo cortile una porta cede e mi accoglie. Il cuore mi batte forte  ma sembra che nessuno abbia fatto caso a me, le 5 del mattino non c’e molto movimento, dormono anche gli insonni. Mi sono trovato in un atrio dal soffitto alto con merci varie ed un fantastico attaccapanni con delle tute da lavoro arancioni. Ne ho indossata una che mi stava perfettamente, ero bello ma avevo ancora sete. Sono uscito dall’atrio da una porta che dava tramite una scala interna, nell’atrio delle consultazioni mediche. Almeno e quello che mi e sembrato allora, quando non sapevo nulla di questa cittadella di servizi sanitari che fra pazienti e spazienti conta quasi 50.000 persone. Una vera citta nel cuore dell’altra da cui provenivo, ma molto più umana a patto certo di continuare ad essere invisibili.

Adesso, che sono da molto tempo un frequentatore di mense e letti della struttura, so che ero capitato per caso nell’emergency room che era deserta perchè il personale aveva la riunione settimanale. Adesso che scambio i miei ruoli con una certa facilità e divento alla bisogna portantino, infermiere, ausiliario o paziente, le mie giornate sono splendide. La mia faccia da malato, il mio essere instabile, il mio colorito giallo e le macchie sulla pelle sono il passaporto dell’invisibilità. Mi intrattengo in questa struttura come malato invisibile, facendo l’appena arrivato quando per caso qualcuno si interessa  a me. Indossando varie tute che trovo negli appositi ripostigli di cui la struttura e’ generosamente provvista, mi infiltro per i corridoi e prelevo cibo dai carrelli mentre questo sono incustoditi aspettando un ascensore, un turno, un addetto andato in bagno. Sono credibile come lavoratore di basso livello, un lavoratore a cui nessuno in genere chiede nulla, la mia forza è tutta questa nuova vita in cui sto al caldo ben pasciuto e protetto la devo al mio aspetto da malato. Quando passo davanti agli acciai tirati a lucido dei macchinari che sfioro nelle mie quotidiane trasferenze,  le superfici riflettono la mia immagine e io ho scoperto che adesso, quando mi vedo, mi sorrido.

Contributo di Pio Iglesias (Giuseppe Chio)