Era una sera di fine ottobre, e Venezia era completamente avvolta nella foschia di metà autunno. Aiutati dal chiarore giallognolo dei lampioni, io e Mariano camminavamo veloci per le calli strette e umide. Andavamo a Murano a casa di un amico, Paolo Fornasier, un industriale di Mestre che dava una festa per il quinto anniversario del suo divorzio.
L’umidità ovattava il rumore secco dei miei tacchi a spillo sull’acciottolato dei vicoli. Eravamo agli inizi del secolo che tutti attendevamo con una strana felicità venata di ansia, il 2000. Le aspettative erano grandiose, tipo andare su Marte, o drammatiche, come la certezza che sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale. Ma, a parte i viaggi della mente, l’unico dato di fatto era che quella sera, a Venezia come in tutto il Nordest, una nebbia fredda già era scesa su città e campagne per dissolversi non prima di aprile.
In piazza San Marco il mio Startac squillò. Pensavo fosse papà, mi faceva sempre una chiamata quando uscivo la sera. Invece era mio fratello Massimo.
«Anna, papà sta male!» disse Massimo, era agitato.
«Cosa è successo?»
«È svenuto, ma non so, è successo qualcosa che…»
«Che significa svenuto? Raccontami bene.»
Sono un medico, potevo riuscire a capirne qualcosa.
«Stasera, mentre parlava, sembrava un po’ strano, poi improvvisamente è caduto per terra e…»
«Eri da lui?»
«Avevo una cena con degli amici ma è saltata, così sono andato a casa sua. Però mentre eravamo a tavola ha cominciato a farfugliare, diceva cose senza senso.»
«E poi?» Mantenni il sangue freddo. Per un medico è necessario, nei casi di emergenza, anche se è coinvolto tuo padre.
«Non riusciva a muovere le braccia, si è alzato e barcollava, non riusciva a parlare. Poi è caduto per terra svenuto. Ma non è… Insomma, ho sentito il cuore e batte regolarmente.»
Conoscevo bene quei sintomi.
«È un ictus» dissi.
«Oh, Cristo» esclamò Massimo, mentre Mariano, che mi aveva sentito pronunciare quella parola, abbassò lo sguardo.
«Papà è in coma» risposi con la commozione che, nonostante la freddezza che mi ero imposta, quasi mi impediva di parlare. «Non è svenuto, Massimo. È in coma.»
«In coma? Papà in… oh, Dio santo…»
«Ascoltami bene, adesso. Non lo toccare e chiama il 118, poi aspetta che arrivi l’ambulanza. Al telefono di’ che ha avuto un ictus e dai la massima urgenza.»
Dio, non puoi togliermi papà. Ho ancora bisogno di lui.
«E dopo richiamami subito» dissi. «Io arrivo al più presto.»
Nel chiarore dei lampioni di piazza San Marco guardai Mariano.
«Cosa è successo?» chiese.
«Mio padre. Credo abbia avuto un ictus.»
«È grave?»
«Non lo so, come faccio a saperlo? Purtroppo mi dispiace, ma dobbiamo rientrare.»
Lui sospirò infastidito. Un padre con un ictus forse non è un buon motivo per disertare una festa banale?
«Cosa c’è?» gli chiesi.
«Anna, lo sai. Paolo mi sta introducendo nel marketing internazionale degli attrezzi da vino. Non posso mollarlo così su due piedi.»
«Che vuoi dire?»
«Che mi dispiace per tuo padre, ma stasera andremo da Fornasier.»
«Forse la situazione non ti è chiara. Lo hai capito o no che papà ha avuto un ictus e che io non solo sono la figlia, ma sono anche un medico e potrei fare qualcosa di utile per salvarlo?»
Alzò le spalle. «È anziano, Anna. Capita spesso a quell’età. Lo curerai quando torneremo a casa.»
Probabilmente non sapeva cos’è un ictus e che può portare alla tomba. Non c’era troppo da meravigliarsene, d’altronde. Il suo mondo non era fatto che di marketing.
«Ma è…»
«Andiamo, Anna, è già tardi» disse interrompendo la mia replica. «Ti prometto che non appena la festa finisce torniamo.»
Come spesso faceva, Mariano mi aveva messo in difficoltà. Alle volte sembrava quasi che si divertisse a crearmi dei problemi nelle situazioni complicate. Un moto di rabbia mi attraversò il corpo con la velocità di una scossa elettrica.
«Da Paolo ci vai tu, Mariano. Io torno a Verona.»
«Ci torni a nuoto?»
«Ci sono i treni, e comunque troverò il modo per arrivarci. Tu fai quello che devi fare, io devo pensare a papà.»
«Fai come vuoi. Però non è bello disertare la festa di Paolo. Non è un bel modo di comportarsi.»
«Per me è l’unico modo di comportarsi, quando tuo padre sta per morire.»
«Ma sì» disse. «Sarà la solita cazzata.»
«Cazzata? Ma chi sei tu per definire “cazzata” un ictus che ha colpito mio padre?»
«Io? Sono solo un importante industriale che produce un prodotto venduto in tutta Italia e che Paolo mi…»
«Perché piuttosto non dici che fabbrichi cavatappi, anziché spacciarli per attrezzi da vino?»
Come faceva sempre quando cominciava a innervosirsi, smise di rispondere, strinse con forza il pugno e lo avvicinò al mio viso con i lineamenti tirati. Istintivamente feci un passo indietro, ma lui abbassò la mano.
«Troia…» disse sottovoce con il viso contratto dalla rabbia, poi mi afferrò per un braccio e mi strattonò costringendomi a voltarmi.
«Avanti, facciamo come vuoi. Torniamo a Verona dal papino, così almeno stai zitta e non dici stronzate.»
«Smettila» dissi. «Tu non puoi…»
«Zitta e cammina. Facciamo questa figura da cafoni con Paolo. Comunque questa me la paghi» concluse prendendo il cellulare per chiamare Fornasier e dirgli che la cena da lui era saltata per colpa mia. Film già visti. Dopo questa eroica conversazione telefonica, Mariano mi guardò.
«Questa storia dell’ictus sarà la solita bufala di tuo padre per spaventare te e rompere i marroni a me.»
In silenzio, tornammo verso piazzale Roma per prendere la macchina e rientrare. Inutile dire che in auto, quella sera, sentii poche parole e molte bestemmie sussurrate a mezza bocca.
A mezzanotte ero in piedi dietro il vetro del reparto rianimazione del Borgo Roma. Era la notte del 23 ottobre.
Con la morte nel cuore, guardavo mio padre. Era immobile, disteso sul letto in una stanza disadorna. L’orologio a muro segnava mezzanotte passata, e un infermiere lo assisteva. A un braccio gli avevano avvolto lo sfigmomanometro, dal torace pendevano i cavi degli elettrodi collegati all’elettrocardiografo e sugli avambracci, coperti da garze, gli avevano sistemato gli aghi delle flebo dell’infusione endovenosa. Era intubato, gli avevano applicato il catetere. Ictus.
Una parola che faceva gelare il sangue, ma ero un medico e sapevo bene di cosa si parlava. Abbassai lo sguardo e recitai una preghiera a bassa voce. Sapevo che da quel momento papà lo avrei rivisto, “se” lo avrei rivisto, sempre così, immobile e spento. Non avrei più ascoltato la sua voce, i suoi scherzi, le sue amarezze. Sarebbe stato per sempre quell’uomo finito che avevo davanti adesso. Aveva settantanove anni, era vecchio. Era mio padre. Nelle flebili luci dell’illuminazione notturna, attraversai il corridoio del reparto rianimazione e mi avvicinai alla vetrata che dava sulla postazione di papà e lanciai un’occhiata. Era immobile.
Sapevo come avrebbero operato i colleghi del pronto soccorso. Al Borgo Roma avevo fatto vari periodi di pratica e conoscevo le procedure. Gli avrebbero fatto una Tac e poi una risonanza magnetica per capire se l’ictus era ischemico o emorragico. Speravo fosse ischemico, perché esistono statistiche significative sulla ripresa dall’attacco ischemico e, al contrario, ce ne sono poche per l’ictus emorragico. La differenza fra un’arteria occlusa e una che si apre è notevole. Mentre ragionavo, vidi un collega uscire dal reparto e mi avvicinai.
«Scusami» dissi con un blando sorriso di circostanza. Aveva il camice verde acqua e gli occhi stanchi. «Ci conosciamo?»
«Sono Anna Sartori, una collega. Sono la figlia del paziente con l’ictus che avete ricoverato stasera.»
«Ciao, Anna. Piacere» disse stringendomi la mano. «Pierluigi Rizzo.» Era del Sud.
«Scusa se disturbo, ma per me non è un bel momento.» Annuì. «Capisco, stai tranquilla. Cosa posso fare per te?»
«Quando pensate di fargli la Tac e la risonanza?»
Il collega scosse la testa. «Lo stiamo preparando adesso. C’è stato un incidente stradale con dei bambini coinvolti e…»
«Non continuare, so tutto.» Per gli addetti a un pronto soccorso i bambini sono più importanti di un uomo di settantanove anni. Niente da dire, per carità. Solo che quell’uomo di settantanove anni era il solo affetto che mi aveva protetto e tenuto in vita da quando ero piccola. Mia madre lo aveva lasciato all’improvviso, sbriciolando una famiglia e riducendolo a una larva. Ma il suo carattere aveva avuto la meglio e con il tempo si era ripreso, o comunque così diceva.
«Domattina ti faccio sapere qualcosa, spero» disse Rizzo con l’aria stanca. «Dammi il tuo numero, ti chiamo appena posso.»
Alle tre del mattino lasciammo l’ospedale. Avevo bisogno di riposare, in attesa dell’insostenibile giornata che mi aspettava l’indomani. Entrai in casa. Mariano aveva capito che l’ictus di papà non era la solita bufala, come l’aveva chiamata lui, ma una cosa molto seria, ed era andato a lasciare la macchina in garage. Aspettando che tornasse, girovagai fra le stanze senza un preciso motivo. I novanta metri quadrati in cui vivevo erano tirati a lucido. Le pareti bianchissime, i divani moderni e neri, il tavolo di cristallo dark al centro, il grande televisore in cui guardavo i film che papà mi aveva insegnato ad amare. Via col vento, Apocalypse Now, Ben-Hur, La dolce vita e tanti altri. Mi piaceva circondarmi di cose moderne.
Mi sedetti sul letto per qualche minuto. Mi sfilai le scarpe col tacco alto che tanto piacevano a Mariano, mi spogliai e infilai il pigiama. Abitavo da sola in un loft del centro, una ristrutturazione elegante dietro piazza dei Signori. Mariano abitava in una villa con tavernetta fuori città, una di quelle contrade tipiche della zona, indicate da cartelli stradali che da un lato segnalano un borgo e dall’altro zone industriali con decine di nomi di aziende incastrati uno nell’altro.
La testa mi faceva male. Mi capitava spesso in quel periodo, ma il dolore di quella sera era diverso da quello delle altre volte. Mi sdraiai sul letto e, guardando il soffitto, ripensai agli eventi della serata. Un inizio banale e un prosieguo drammatico, e pregai Dio che la conclusione non fosse tragica. Non appena questo pensiero mi sfiorò sprofondai nel sonno.
Ma durante la notte accadde qualcosa.
Mentre dormivo, fu come se una mano mi avesse afferrata alla gola per trasportarmi in un mondo parallelo affogato nell’angoscia. Una coltre di nebbia mi si diffuse nella testa e dal bianco lattiginoso spuntarono delle voci deformate di uomini che urlavano, poi lamenti sommessi di donne, gemiti di bambini, pianti infantili alternati a latrati rabbiosi di cani. Quella specie di visione andò avanti senza altri dettagli e quei suoni crebbero progressivamente di intensità fino a diventare insopportabili. Mi svegliai di soprassalto.
L’orologio segnava le 5.40 e sentivo il cuore battere forte, ansimavo. Era stato un incubo, ovviamente, ma differente da tutti quelli avuti fino ad allora. Vidi Mariano sdraiato al mio fianco che dormiva profondamente, non si era accorto di niente. Accesi l’abat-jour sul comodino e andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Non c’era dubbio, l’incubo era dovuto alla tensione nervosa che mi aveva travolto per l’ictus di papà. Provai a riaddormentarmi, ma non ci riuscii e restai con gli occhi aperti a fissare il soffitto. A un certo punto, percepii al mio fianco il lieve ansimare della respirazione di Mariano, così per distrarmi mi concentrai su di lui.
Mariano era il mio ragazzo, il mio “moroso” dicono in Veneto. La sua azienda era fiorente, esportava cavatappi in mezzo mondo e, finché la cosa andava, i soldi entravano a mucchi. Quindi, secondo la mentalità del mio ambiente, sarebbe stato il marito ideale per me. Una volta mi aveva descritto l’etica dell’imprenditore di successo. Prevedeva, in parti uguali, una buona dose di sorrisi finti, delle verdure bollite da abbinare ad acqua naturale per non ammalarsi mai di tumore e, infine, un’esibizione discreta del proprio potere economico. In aggiunta era necessaria una moglie attraente e con i tacchi alti, da mostrare agli altri come un cagnolino al guinzaglio. Per poi tradirla, immaginavo, con le escort che il signor imprenditore incontrava nei suoi continui viaggi di lavoro all’estero. L’etica del management imponeva anche dei figli biondi e ben pettinati. Con gli occhi azzurri, ovviamente.
Tutto molto affascinante, se non fosse stato per un piccolo ma non insignificante particolare: quando beveva, alle volte Mariano alzava le mani su di me. E, se non beveva, di quando in quando si divertiva – è il termine esatto: “si divertiva” – a umiliarmi in modi talmente creativi, quasi “artistici”, da farmi meravigliare della sua tanto sbandierata concretezza imprenditoriale. Sopportavo, cosa avrei dovuto fare? L’ambiente in cui vivevo era quello e lui era il mio futuro marito, l’uomo che avrebbe consentito alla moglie – ovviamente sempre in tacchi alti – una vita agiata. E inoltre Mariano piaceva a papà, fra imprenditori si capivano. Non avevo altra scelta, perciò, se non quella di fare buon viso a cattivo gioco a una situazione difficile, che però mi garantiva un futuro più che dignitoso, direi ricco.
Certo, ricco. Ma già da allora la ricchezza che mi interessava non era solo quella materiale, volevo che anche la mia anima fosse ricca.
Mariano si accorse che qualcosa non stava andando come al solito e alzò la testa, per poi crollare subito sul cuscino senza dire niente. Alla fine anche io persi conoscenza.
Più tardi fui riportata al mondo da un rumore sordo e fastidioso che dopo alcuni istanti capii essere la suoneria del mio cellulare. Avevo la testa dolorante e i sensi intorpiditi, ma guardai il display. Prefisso 045, quello di Verona, e intuii subito chi mi stava cercando. Mi feci il segno della croce.
«Sono Rizzo, il collega con cui hai parlato per tuo padre. Senti, abbiamo fatto Tac e risonanza magnetica…» Fece una pausa, sembrava imbarazzato, il classico preludio alle brutte notizie. «Mi dispiace, ma è stato colpito da uno stroke emor- ragico all’emisfero destro. C’è stata la rottura della cerebrale media.»
Non risposi subito.
«Questo significa però» disse il collega «che se un giorno dovesse risvegliarsi, potrebbe riacquistare la parola.»
Al telefono Rizzo fu mediamente cinico, come in genere lo sono i medici con i familiari dei pazienti.
«Lo so» risposi. «Ma è tutto al condizionale.»
«Mi dispiace davvero, ma devo essere cauto, lo sai.»
«Ti ringrazio, Rizzo. Sei stato gentile» dissi, e lo salutai nella consapevolezza che papà avrebbe vissuto un lungo periodo di coma profondo, e alla fine della corsa i casi sarebbero stati due: vita estremamente complicata o morte per arresto cardiaco.
Sentii lo stomaco in gola. Dopo aver chiuso la conversazione, mi passai le mani sul viso come per graffiarmi, presa dal desiderio di sostituire allo strazio dell’anima un dolore fisico che sarebbe stato sicuramente più sostenibile. Mi guardai allo specchio davanti al letto, e l’immagine riflessa mi consegnava un volto sciupato e, nonostante non avessi superato la trentina, già solcato dalle rughe.
Nei giorni a venire, la mia testa tornò spesso al ricordo della vita che conducevo prima del coma di papà, un periodo che ora mi sembrava irreale e lontano secoli dalla realtà grigia che stavo vivendo. Immaginavo il mio futuro ruotare in- torno allo studio di chirurgia estetica in centro, magari in una bella palazzina con all’interno un giardino nascosto agli occhi dei passanti e fuori una targa in plastica trasparente con la scritta in nero: Dott.ssa Anna Sartori – Specialista n Chirurgia plastica e ricostruttiva. All’interno ci vedevo una segretaria in perfetta forma, un modello per le mie clienti, e alle pareti color ciclamino tenue quadri di autori contemporanei e vasi di fiori, poi musica soft jazz diffusa da invisibili casse e nell’aria delicate essenze orientali. Volevo una scrivania di cristallo sgombra da carte inutili. Le veronesi, pensavo, sarebbero accorse in massa da me per rifarsi occhi, labbra, zigomi, seni, gambe, glutei e fianchi. I prezzi sarebbero stati giusti. Una rinoplastica costava in media dieci milioni di lire, una liposuzione sei, una mastoplastica dodici, una blefaroplastica sei e il lifting totale, il ritocco per eccellenza, dodici. Avrei guadagnato molti soldi, pensavo, e questo mi avrebbe consentito di possedere auto adeguate come una Bmw serie 7, la barca di cui ero innamorata e, in qualche anno di lavoro, ce l’avrei fatta a realizzare il mio grande sogno: una clinica privata tutta mia. L’avrei chiamata Villa Anna. Possedere, possedere, possedere. E invece tutto era finito in una stanza grigia del Borgo Roma di Verona.
La giornata fu di quelle da non ricordare. Alla guida della mia auto, una Mini azzurro metallizzato, andai verso casa di papà, che si trovava in una zona verde di Valpolicella, un’ampia fascia collinare alle porte della città punteggiata dalle ville della Verona bene. Massimo era in ospedale, Mariano in azienda, e guidando mi vennero in mente pensieri oscuri. Bisognava essere forti. Papà era come se non ci fosse. A seguire azienda e affari d’ora in poi ci avrei pensato io, non sarebbe stato un problema. Arrivai e parcheggiai vicino alla piscina. In casa c’era solo Carmen, la colf filippina. Non era la badante di papà, Luigi Sartori era ancora in grado di badare a se stesso. Carmen mi abbracciò e insieme entrammo in casa. L’arredamento era di gusto classico, italiano primi Novecento, legni pregiati e tanti soprammobili, le pareti erano beige chiaro e l’insieme infondeva una sensazione calda e confortevole.
Quasi fluttuando nel silenzio, mi sedetti in soggiorno e guardai le sue cose. Lo stereo Sansui, il televisore anni Novanta, la collezione di vinili di musica blues, un genere che non capivo, ma per cui lui andava pazzo. Mi spostai nella zona notte. Nella sua camera il letto era rifatto, alle pareti alcuni quadri di valore e foto con me e Massimo: da piccoli, da bambini, da ragazzi e poi da adulti. Ci adorava. Lui nelle foto appariva sempre sorridente, nonostante le sofferenze che aveva patito. In una foto in cui dovevo avere cinque anni mi teneva per mano. Aveva un viso buono, i capelli grigi pettinati un po’ all’antica. Quando guardavamo insieme quella foto, gli consigliavo sempre di ricoverarsi per una settimana in uno di quei resort in cui si entra con un aspetto appesantito e si esce più o meno in forma. Adesso quell’immagine mi evocava solo tristezza. Ricordai di quando papà cercava, senza riuscirci, di parlare a me e a Massimo del periodo che aveva trascorso sotto le armi. Aveva combattuto nella seconda guerra mondiale, ma quando provava a spiegarci cosa avesse fatto e dove fosse stato, o se anche solo si accennava all’argomento, immancabilmente cambiava discorso. Solo una o due volte aveva fatto riferimento ai suoi compagni d’armi morti in battaglia, ma subito dopo, come sempre, aveva fatto scendere una cappa di piombo sulla conversazione. Così io e Massimo finimmo per non chiedergli più di raccontarci della guerra, ci bastava la consapevolezza di essere figli di un uomo che aveva vissuto momenti che la maggioranza degli umani, per fortuna, non vivrà mai.
Squillò il cellulare, era Oriana, mia madre.
«Oriana?»
«Anna, ho saputo di papà, ma che…»
«È in ospedale. Ha avuto un ictus e adesso è in coma.»
«Dio mio, ma come è successo?»
«Ha settantanove anni, fumava e aveva la pressione alta. In questi casi gli ictus sono da mettere in conto.»
Mia madre.
C’era stato un tempo della mia vita, un tempo lontano, in cui l’avevo amata. Quando ero bambina fra noi c’era un’empatia profonda, qualcosa di indefinito che ci univa come se fossimo la medesima persona. I suoi occhi verdi, grandi e dall’espressione delicata, mi rapivano ogni volta che li guardavo. La vedevo bella e invincibile, al fianco di papà.
Purtroppo non ci misi troppo a rendermi conto che i suoi occhi non rapivano solo me. Quando avevo nove anni, Oriana abbandonò mio padre e noi al nostro destino per andarsene con un uomo che aveva incrociato in un’agenzia di viaggi. C’era andata per organizzare una crociera con papà, e finì per andare a vivere con il titolare dell’Arena Tour. Non gliel’ho mai perdonato. Anche io stavo con Mariano senza troppo entusiasmo, per usare un eufemismo, ma continuavo ad andare avanti. Avrebbe dovuto farlo anche mia madre.
Quando restammo soli, tutto mi sembrò improvvisamente irreale e senza contorni, come se la mia vita fosse diventata una sorta di vicolo immerso nella nebbia più fitta. Fummo obbligati a imparare a fare le cose che fa chi comincia una nuova esistenza, organizzare la spesa, pensare alle pulizie, pagare le bollette. Ci riuscimmo, e a poco a poco ricominciammo a vivere. Certo, da allora papà iniziò a portarsi dentro il dolore dell’abbandono, cosa che probabilmente è stata la causa della sua ipertensione e del fatto che continuasse a fumare troppo.
Mi stesi sul suo letto, e nel cervello tornò con prepotenza l’immagine di lui in rianimazione. Passai un’ora sdraiata, le lenzuola erano ancora impregnate della sua acqua di Colonia. Il giorno dopo andai in ospedale, la situazione non era cambiata. Flebo, intubazione. Mancanza totale di conoscenza. Dio!
Verso le due del pomeriggio arrivò mia madre. Era sola.
«Ciao, Oriana» dissi.
Mi chiese notizie di papà, e le raccontai i fatti. Poi, con Mariano, andammo in un bar per un sandwich. Non riuscii a mangiarne nemmeno metà. Ero tesa, gli dissi che non avevo fame. E senza neanche troppo fingere, lui, come spesso faceva, si dedicò soprattutto ai continui sms in arrivo al cellulare, una cosa che mi procurava un fastidio notevole ma che non potevo criticare, altrimenti avrei scatenato una delle sue solite crisi di rabbia. Ebbi, comunque, una forte emicrania e mi portai le mani alle tempie.
Più tardi, in silenzio, tornammo in ospedale. Non c’era nessuno. Papà non aveva fratelli né sorelle, niente cugini o altri parenti. Era una specie di orfano, un uomo solo che aveva sempre sofferto per gli altri. Mia madre, intanto, era già sparita.
Il racconto continua….
STORIA DI UNA FIGLIA
di
Pagine: 336 pp
Prezzo: 19€
Verona, 2001. Anna, ventinove anni, è una ragazza ingenua, ricca e viziata dall’adorato padre, un facoltoso imprenditore. Dopo la laurea in medicina Anna vuole specializzarsi in chirurgia plastica per aprire uno studio estetico, sposarsi e avere una famiglia. Quando però un ictus colpisce il padre e un misterioso amico gli fa visita, Anna inizia un’indagine sul passato in guerra del padre. Le tracce la conducono nell’Italia del 1944, nel pieno della furia omicida delle SS in fuga, quando le truppe scelte di Hitler trucidarono per vendetta almeno quindicimila civili.
Una storia che oggi pochi conoscono, come pochi sanno che alle SS tedesche si unì un famigerato battaglione di SS italiane, di cui dopo la guerra si è cercato di far perdere la memoria.
Al termine di questo drammatico percorso, Anna ritrova la sua vera anima. Così, finalmente libera da quel passato terribile che le scorre nel sangue, torna a Colle Sant’Agnese, il paesino toscano in cui i nazisti fucilarono oltre quattrocento persone fra donne, vecchi e bambini.
Una storia nera, drammatica e poco chiara e che parla ancora al presente, chiedendo giustizia.
Piernicola Silvis è nato nel 1954 a Foggia. Alto dirigente della Polizia di Stato, ha lasciato il servizio nel 2017 come questore di Foggia. Con SEM ha pubblicato Formicae (2017), La lupa (2018) e Gli illegali (2019), finalista al Premio Bancarella 2020. I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue.