Il nove luglio 1940 le corazzate inglesi erano venute a provocare la nostra flotta in prossimità delle coste calabresi; anche se lo scontro, battezzato poi “Battaglia di Punta Stilo”, si era concluso senza perdite, era rimasta nei nostri alti comandi una profonda impressione del l’audacia delle navi inglesi e della loro aggressività. L’Italia era entrata in guerra il 10 giugno. Alcuni mesi dopo, ed esattamente nella notte dall’undici al dodici di novembre, aerei siluranti decollati da una portaerei, che si era appostata a ridosso della costa greca, erano piombati sulla piazzaforte di Taranto, dove era concentrata quasi l’intera nostra flotta, mettendone fuori uso una buona metà.
Questi due episodi indussero gli alti comandi della marina ad intensificare l’attività della ricognizione aerea, per cui eravamo in volo dall’alba al tramonto. Quel giorno ero in volo dalle nove del mattino e il rientro a Taranto era previsto per l’ora del tramonto. La fascia di mare che mi era stata assegnata andava dalla costa calabra, in prossimità di Punta Stilo, ed arrivava in vista di Corfù. L’aereo su cui volavo era un Cant Z. 501, un idrovolante monomotore che aveva un equipaggio di quattro persone: un pilota e comandante del velivolo; un sottotenente di vascello osservatore; un motorista e un armiere. Per cui in occasione di avvicinamento di caccia nemici, i temutissimi Spitfire (velocità 500 km/h), unica difesa era infilarsi nelle nubi, augurandosi che ce ne fossero.
Il mare quel giorno era calmo, il cielo purtroppo sereno, ed il sole, abbassandosi sull’orizzonte, diventava sempre più rosso: un bel tramonto verso la Sila. Nelle lunghe ore di volo non ci fu nessun avvistamento, tranne pochi pescherecci in fase di rientro.
Volavamo ad una quota intorno ai mille metri, ognuno immerso nei propri pensieri.
Su quel mare tranquillo, sotto quel cielo sereno, la guerra sembrava un fatto lontano, soltanto un ricordo. Quando giungemmo in vista di Corfù e mi apprestavo a virare verso la costa pugliese, avvistai un punto lontano, che dalla costa veniva verso il mare aperto. Si avvicinò rapidamente: era un aereo inglese, un Sunderland, a noi ben noto, che volava alla nostra stessa quota, ma ad una velocità notevolmente più sostenuta. Il Sunderland era un quadrimotore, che poteva raggiungere i 350 km/h. Si affiancò a noi, ad una distanza di non più di mille metri, e per un tratto volò su una rotta a noi parallela. I nostri erano pronti, ma le mitragliatrici tacquero: avevo dato ordine di non aprire il fuoco se non in risposta ad una loro azione offensiva. Anche le loro mitragliatrici tacquero: il Sunderland era armatissimo con due mitragliatrici da 12,7 mm., e ben otto mitragliatrici da 7,7 mm.; noi di mitragliatrici ne avevamo soltanto due da 7,7 mm. I miei uomini erano pallidi per l’emozione, con le mani sulle armi, e guardavano verso di me, aspettando un mio cenno. Io non perdevo d’occhio il pilota dell’aereo inglese, che distinguevo con chiarezza, essendosi avvicinato ancora di più.
Furono pochi momenti carichi di tensione, ma non accadde nulla. Ad un tratto vidi la mano del pilota inglese alzarsi verso l’alto, ed agitarsi in un ampio e palese gesto di saluto. Risposi al saluto, emozionato e commosso. Il Sunderland accelerò l’andatura allontanandosi verso il mare aperto e scomparve all’orizzonte.
Sono passati tanti anni da allora ma non ho mai dimenticato quel giorno: era il 24 dicembre, la vigilia di Natale.
(da Amerigo Javarone – Il Lungo Inverno del 1944 – Edizioni GAE, Milano, 2002, pag. 21-22)